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RECENSIONE :

Mario Enzo Migliori

Pubblicata su:

ARTHOS 16 - 2007

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QUINTO AURELIO SIMMACO

In difesa della Tradizione

a cura di Renato Del Ponte

ArÅ·a Edizioni, Genova, 2008, 

pagine 96 - € 16,00 

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Secondo libro edito dalle neonate e già benemerite edizioni Arya di Genova, ripropone la famosa Relatio tertia del princeps senatus Quinto Aurelio Simmaco curata da Renato Del Ponte per la "Collana Studi Pagani" de il Basilisco nel 1986. Dalla precedente edizione differisce, oltre alla revisione e aggiornamento dei testi e della bibliografia, per la pubblicazione in appendice di quattro lettere di Simmaco tratte dal nono libro dell'epistolario e una ricca scelta d'immagini - commentate - relative ai Simmaci ovvero inerenti al culto romano di Victoria. Last but not least chiude il volume un interessante scritto di G. V. Sannazzari: Vica Pota, Studio preliminare sul culto della Vittoria in Roma antica.
La scelta del "nuovo" titolo è coerente con il contenuto della relazione senatoriale, "Grande è l'amore per la Tradizione" (Symm., Relatio III, 4); in questa affermazione è racchiusa l'essenza della posizione religiosa e politica del Console Quinto Aurelio Simmaco "l'oratore" (considerato dai contemporanei persino superiore allo stesso Cicerone) e di una delle principali linee di tendenza, quella conservatrice-tradizionalista, caratterizzanti i pagani nella Roma del IV secolo. In effetti, escludendo opere piů voluminose quali i Saturnalia di Macrobio, quale scritto è il più indicato per rappresentare la società pagana in quella triste epoca che vide legalizzato il sopraffare della religione monoteista e intollerante, organizzata in quella chiesa che con i suoi massimi esponenti in quel tempo realizzò la laicizzazione della res publica - per poi sopraffarla - con tutte le conseguenze che ha determinato?
I problemi posti Sono sostanzialmente giuridici: "Noi rivendichiamo pertanto lo stato giuridico dei culti religiosi, che per lungo tempo fu utile alla cosa pubblica"; in effetti, dall'ambiguo Costantino in poi, benché gli imperatori escluso, naturalmente, Giuliano, fossero cristiani, culti tradizionali e i relativi sacrifici continuarono a mantenersi a spese dello Stato e gli stessi principi cristiani continuarono a rivestire la suprema carica della religione pubblica romana: il Pontificato Massimo.
Sotto la particolare influenza del vescovo Ambrogio il giovane Graziano soppresse tra i titoli imperiali quello di pontifex maximus (senza assumerne nel contempo altra nella religione professata); privò le vestali e i collegi sacerdotali delle immunità e delle sovvenzioni pubbliche e ne confiscò beni; fece nuovamente rimuovere l'altare della Vittoria dalla Curia Julia sede del Senato di Roma operando cosi la laicizzazione dello Stato.
"Per i pagani questi provvedimenti erano privi di senso, in quanto per loro la res publica non avrebbe potuto sostenersi senza il cultus deorum, garante la pax deorum, vale a dire la protezione divina sulle sorti dell'Impero. Era come se venisse unilateralmente infranto un antico patto giuridico: quello che, a partire da Romolo e Numa, era stato stipulato fra res publica Romanorum e potenze divine, col fine ultimo della tutela e conservazione della comunità dei Romani. Abolire il finanziamento pubblico ai culti tradizionali era rompere quell'antico contratto: ecco perché non potevano esistere culti, che non avessero pubblica sanzione e finanziamento." "Senza un riconoscimento pubblico, giuridicamente valido, i culti rientravano nella sfera privata, ma la res publica perdeva la Sua anima, diveniva un'entità desacralizzata priva di luce e riferimento superiore, con conseguenze gravissime facilmente immaginabili: la caduta della stessa res publica, abbandonata a se stessa da quelle divinità che l'avevano sostenuta per undici secoli e mezzo".
A ciò cercò di opporsi il Senato inviando una prima ambasceria guidata da Simmaco alla corte di Milano per il ristabilimento dello status quo, ma a causa della scorretta iniziativa dei vescovi di Milano e Roma e di alcuni cortigiani la delegazione non fu nemmeno ricevuta.
Una nuova occasione si presentò col nuovo imperatore Valentiniano II. I tempi sembrarono più favorevoli, Simmaco viene ricevuto e la sua relazione, il cui testo è qui riproposto, viene apprezzata dai consiglieri dell'imperatore, sia cristiani sia pagani, per la giustezza delle argomentazioni riportate.
Il Senato vedrà bloccate le sue richieste per il doppio rapido intervento di Ambrogio presso il giovane imperatore: le esplicite minacce di scomunica, dai possibili effetti dirompenti sul piano politico per una corte debole sortirono il loro effetto. Da pochi anni gli imperatori cristiani succubi dei loro vescovi (Ambrogio rivendicò a sé il diritto di giudicare e assolvere anche capi di Stato; Teodosio si sottomise a ciò e il vescovo milanese si fece pagare caro il suo perdono) imposero leggi sempre  più intolleranti. "Ma i templi non si chiusero, i collegi sacerdotali non si sciolsero: di li a poco la rivolta di Eugenio ed Argobaste sopraggiungeva a determinare il crollo del sistema teodosiano in Occidente.
"Fra il 392 e il 394 torna in Senato, per I'ultima volta, l'ara Victoriae, i contributi ai collegi sono restaurati, i cembali della Grande Madre risuonano ancora per le vie di Roma. Ma è un sogno di breve durata…".
La relazione di Simmaco era caratterizzata, come la vita e le opere del suo autore, dal naturale rispetto delle altrui fedi (caratteristica tolleranza pagana). Quella di Simmaco è "la fedeltà ad una linea di conservazione intransigente, e coerente in tutte le sue manifestazioni, del mos maiorum indigeno, di quella corrente latina e italica che, dal mondo indistinto e pur luminoso delle origini di rex Saturnus, si snoda nel percorso di tutta la storia di Roma sino alle sue estreme manifestazioni ufficiali".

Da ricordare anche l'importanza avuta dal circolo simmachiano per la trasmissione del pensiero dell'antichità sino ai giorni nostri: "senza Simmaco non vi sarebbe stato un Boezio e senza Boezio forse Dante non sarebbe stato tale e il mondo della classicità latina sarebbe poco più che un muto residuo archeologico e non quella realtà che per molti ancora vive di luce propria".


Mario Enzo Migliori 

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