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RECENSIONE :

Alberto De Marchi

Pubblicata su:

Circolo Proudhon Verona - 15 aprile 2021

SANDRO CONSOLATO

Evola e Dante

Ghibellinismo ed esoterismo

Postfazione di: Renato del Ponte

Edizioni Arŷa, Genova 2014,

pagine: 96 - € 18,00.

Il Dante esoterico: una tematica abusata?

1321-2021, settecentenario della morte del Sommo Poeta, momento adatto per fare i conti, con noi stessi ma soprattutto con lui.

Su Durante di Alighiero degli Alighieri è stata scritta e detta qualsiasi cosa, moltissime con cognizione di causa, altre decisamente meno. E, sgomberiamo subito il campo dalle possibili critiche, chi scrive ritiene la lettura esoterica della vicenda – intellettuale e personale – dantesca degnissima di cittadinanza all’interno di quella Repubblica delle Lettere che probabilmente però non più esiste. Letture esoteriche che debbono fondarsi su precisi lavori di ricerca e documentazioni il più possibile evidenti, sia ben chiaro: potrebbero dunque trovare spazio tra queste righe – che nemmeno vi promettiamo saranno poche – i thriller storici con protagonista Dante rosacroce o massone per partito preso o qualsiasi altra esotericata che fa tanto vendere al massimo per dirne assai poco di bene. Posti sul piedistallo che è invece loro dovuto vi saranno tre testi – nella nostra analisi partiremo da quelli, ma non saranno gli unici trattati – che elencheremo ora in ordine cronologico di prima apparizione: L’esoterismo di Dante (1925) di René Guénon, Evola e Dante. Ghibellinismo ed esoterismo (2014) di Sandro Consolato e infine gli Studi su Dante – Scritti inediti sulla Divina Commedia, pubblicati postumi (2017) come in pratica tutte le – poche – opere di Guido De Giorgio.

Il testo di Guénon prende le mosse da tre versi della prima cantica della Commedia:

«O voi ch’avete li ‘ntelletti sani/mirate la dottrina che s’asconde/sotto ‘l velame de li versi strani»

Inferno IX, 61-63.

In questo scritto di esplicito si trova ben poco, ma non sembra difficile – a partire proprio da quelle terzine – afferrarne per sommi capi la motivazione di stesura: l’autore francese ammette che nell’opera dantesca «vi è un significato nascosto, strettamente dottrinale, del quale il senso esteriore e apparente è soltanto un velo». “Guénon ha scoperto proprio l’acqua calda!”, direte voi. Effettivamente sì, vi rispondiamo, perché oggi possiamo benissimo dire di essere quasi annegati dal profluvio di letture esoteriche – dozzinali, ça va sans dire – di qualsiasi cosa (è ciò che gli “addetti ai lavori” chiamano controiniziazione), ma il nostro, alla metà degli anni Venti del Novecento fu sicuramente tra i primi – con una probabilità molto vicina alla certezza, il primo – a proporre una lettura unitaria della Commedia dantesca che superasse di livello quella anagogica. L’autore francese certo non è partito dal nulla: non pochi sono stati gli autori a lui antecedenti – il più delle volte raccolti dai posteri sotto il nome collettivo, un po’ semplicistico e un po’ canzonatorio, di occultisti – ad evidenziare il fatto che, al di là dei quattro tradizionali sensi di lettura della Commedia, doveva esserci qualcosa d’altro. René Guénon (1886-1951) seppe dare compiutezza a tali abbozzi. I punti fermi mantenuti dall’autore – cattolico presto accusato di “gnosticismo” e successivamente convertitosi all’Islam, assumendo il nome di Shayk ‘Abd al-Wahid Yahya e tra i difensori massimi dell’“unità dottrinale comune a tutte le tradizioni”, eccelso cultore della numerologia nonché fine conoscitore delle tradizioni esoteriche ed iniziatiche dell’Oriente – anche in questa sua disamina, sono i concetti di centro (il “mezzo del cammin di nostra vita”) e asse spirituale del mondo, coi tre mondi percorsi da Dante simboli – rispettivamente – delle condizioni pre-umana, umana e oltre-umana (attenzione: non sovra-umana!) dell’esistenza.

Anche il docente di Materie Letterarie e Latino calabrese Sandro Consolato (classe 1959) nel suo studio sul rapporto Evola-Dante, parte, fin dal sottotitolo (Ghibellinismo ed esoterismo) da quanto trovasi scritto in un’opera letteraria: non però stavolta la Commedia, bensì il carme Dei Sepolcri di Ugo Foscolo, allorquando il grande veneziano parlò dell’Alighieri come “ghibellin fuggiasco”. Ma come, Dante non era della parte dei Guelfi bianchi? Cosa mai ci hanno raccontato tra scuole ed accademie? Non crediamo di affermare nulla di sconosciuto col dire che, nella sua famosa concezione teologico-politica dei due Soli, il fiorentino certo tenesse il concetto dell’Impero in una considerazione altissima per essere un guelfo “puro”. Dante cristiano, poi, non ci sono dubbi (o ce ne sono pochi assai), Dante papista proprio no! Consolato è ad ogni modo nel numero di coloro che muovono dubbi sul cristianesimo del Sommo e trova, a fare da sponda alle sue convinzioni, un altro testo fondamentale alla comprensione della presente, complessa tematica: Il linguaggio segreto di Dante e dei “Fedeli d’Amore” (1928) di Luigi Valli (1878 -1931), docente universitario e critico letterario della cerchia pascoliana. Non molto da aggiungere, al titolo: il professor Valli postula l’appartenenza del “ghibellin fuggiasco” alla setta segreta denominata Fedeli d’Amore (della quale addirittura, dopo l’uscita dell’amico fraterno Guido Cavalcanti, sarebbe divenuto “capo”) i cui appartenenti, dietro “’l velame” di versi tipicamente stilnovisti dedicati alle donne-angelo si sarebbero fatti latori di messaggi destinati soltanto a chi aveva orecchi per intenderli. Portatori di segreti che avrebbero appreso da maestri Templari e Sufi, era la Chiesa l’ente da cui più si dovevan difendere.

Per Sandro Consolato la dimensione esoterico-iniziatica, in Dante, è un tutt’uno con quella politico-sociale (basti, a dimostrarlo, il trattato De Monarchia, scritto da un dei padri della nostra lingua non in quella, bensì in latino, lingua universale); è in certo qual modo questo il fulcro del suo saggio, e lo si trova specialmente nel capitolo terzo, non a caso intitolato Dante auctoritas della dottrina imperiale. Quell’ auctoritas, strettamente, fin etimologicamente collegato al verbo latino augeo (“innalzare”) ha evidentemente una connessione strettissima con l’attributo di Augusto proprio degli Imperatori romani. E l’autorità di questi era prima sacrale che politica. A conferma dei propri convincimenti, l’autore, mi si perdoni la ripetizione, scomoda un autore assai scomodo: Julius Evola (1898-1974), alfiere, portabandiera del Fascismo cosiddetto “ghibellino”, anticristiano, anticattolico, fieramente pagano. Ne cita due opere, Il mistero del Graal (1955) perché effettivamente Dante è un po’ come Leonardo da Vinci: un jolly da tenersi pronto nel mazzo quando c’è qualche irrisolto nei paraggi; ma soprattutto Imperialismo pagano (1929: gioco del destino che sia coeva alla firma dei Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa?) dove il filosofo della rivolta contro il mondo moderno afferma che la tradizione cattolica non è in nessuna maniera identificabile con la romana e che fra le due non vi è continuità alcuna, bensì drastica inconciliabilità. E Dante Alighieri fu “portatore sano” della seconda, giammai della prima! Ora però, per rispetto nei confronti di De Giorgio, la cui opera ci apprestiamo ad introdurre, concludiamo qui con questa.

Gli scritti inediti sulla Divina Commedia raccolti sotto il semplice, fin quasi banale titolo di Studi su Dante non nascono come opera in senso continuativo. Guido Lupo Maria De Giorgio (1890-1957) li stese a mo’ di pensieri sparsi sull’esule fiorentino e sulla di lui opera. Personaggio degno di menzione, il De Giorgio, originario del beneventano, laureatosi in Filosofia a Napoli, quindi trasferitosi in Tunisia per lavoro: sarà qui che entrerà in contatto con ambienti esoterici islamici, senza però mai convertirsi. Spostatosi in Francia allo scoppiare della Prima Guerra Mondiale, inizierà qui a frequentare Guénon e i suoi per poi, tornato in Italia sul principio dei Venti, iniziare – sempre sotto pseudonimo – la collaborazione con diverse riviste d’argomento esoterico ed iniziatico: Ur, Krur e La Torre le principali. Ritiratosi sulle montagne piemontesi dal 1939, anno in cui il figlio Havis morì venticinquenne in Africa Orientale Italiana, vi permase fino alla morte.

Guido De Giorgio non aderì mai a nessuna scuola tradizionale precisa, per quanto venga da taluni definito “il miglior discepolo italiano di Guénon”: o perché non ne fu interessato o perché non ce lo vollero; sappiamo infatti – del poco che ci è dato sapere sulla sua personalità – che non era persona che si facesse voler bene! Il già citato Evola – per quanto tra i due una certa stima intellettuale ci deve pur essere stata, dal momento che fu lui il primo ad accorgersi di De Giorgio, definendolo “una specie di iniziato allo stato selvaggio” – , in un suo scambio epistolare, ne dirà: “Il suo nome non è conosciuto che da pochissimi amici, e probabilmente, come cose scritte e stampate, di lui non resteranno che tracce insignificanti”. E per un quindicennio abbondante dopo la sua morte effettivamente così fu; il nome di De Giorgio cominciò a circolare nuovamente nel 1973, allorquando venne stampata per la prima volta, in un’edizione a tiratura limitata, l’unica opera cui l’autore fin dall’inizio volle dare carattere organico: La Tradizione Romana. Tradizione che funge da comun denominatore per la stesura dei pezzi che saranno in seguito collazionati negli Studi su Dante.
La visione di De Giorgio – il quale, sebbene non fosse certo religiosamente cattolico, di certo culturalmente lo fu – è la più lineare tra quelle qui presentate: riconoscendo egli in Roma “il luogo fisico e metafisico dell’incontro delle maggiori correnti spirituali antiche: il paganesimo dell’Occidente e il cristianesimo dell’Oriente”, unificò quelle due concezioni di Roma che per Evola erano drasticamente inimiche in “una sola ed unica Roma, non più antica [la pagana] o nuova [la cristiana] ma eterna”. La Divina Commedia poema sacro, Dante poeta di Dio, Virgilio tra i profeti della venuta di Cristo, quindi: nulla insomma di così diverso da quanto – per sommi capi – ci viene insegnato nelle aule. C’è da tenere però ben chiaro un concetto (ed è questo che dà a De Giorgio e ai suoi scritti danteschi diritto di cittadinanza in questo pezzo), ossia che le due “Rome” di cui egli parla non sono né nemiche né tanto meno l’una è succeditrice dell’altra: sono la stessa città, la stessa civiltà,

lo stesso concetto che ha trovato compimento.

L’ultimo autore la cui fatica dantesca intendiamo compiutamente analizzare – pur scostandosi bastevolmente dalle precedenti – ha già trovato spazio tra queste pagine: alludiamo a Silvano Panunzio (1918-2010), a detta del suo stretto discepolo Aldo La Fata – che ne ha recentemente dato alle stampe una succulenta biografia – “in Italia uno dei più qualificati rappresentanti cattolici di quella corrente di pensiero esoterico inaugurata […] da René Guénon e convenzionalmente denominata tradizionalismo integrale”. Dei finora trattati, egli fu anche il più strettamente poeta, e dunque, in certo qual modo “collega” dell’Alighieri. L’opera che dedica al Sommo Poeta – quinto tema e settimo volume del Corso di Dottrina dello Spirito – s’intitola Cielo e Terra. “Poesia, Simbolismo, Sapienza nel Poema Sacro” (2009): si nota agevolmente che il risvolto poetico della vicenda dantesca è tenuto in primaria considerazione. Il viaggio in cui Panunzio c’accompagna tra cielo e terra, specularmente inverso a quello del quale ci parlerà nel testo successivo del Corso (Terra e Cielo – Dal nostro Mondo ai Piani Superiori, 2002) è davvero quello di un autore che – è il solito La Fata a dirlo, curatore dell’opera per le Edizioni Simmetria di Roma – “come Dante può essere annoverato tra gli spiriti magni”.

Assumendo a mo’ di punto di partenza gli scritti del dantista Gabriele Rossetti (1783-1854), patriota italiano esule a Londra – il quale, “per amore di sapienza” darà al suo figlio secondogenito Dante Gabriel (1828-1882), tra i principali esponenti del corso prerafaellita della pittura inglese, appunto il nome dell’Alighieri – Panunzio ci accompagna sobriamente lungo un viaggio alla scoperta sì del Dante metafisico e simbolico, ma in maniera sintetica e, soprattutto, intuitiva, senza far propri gli intellettualismi di altri “dantisti esoterici” ma anzi considerando l’iniziazione di cui comunque si abbisogna per accostarsi a determinate tematiche, aperta a tutti coloro che sinceramente, spiritualmente s’impegneranno per ottenerla.

Altri testi da citare ce ne sarebbero (diversi di Valli oltre al già citato, quelli del Rossetti appena nominato e di moltissimi e degnissimi altri studiosi), tanti che temo la lunghezza di questo mio scritto ne potrebbe risultare più che raddoppiata, ma anche solo a fermarci qua, credo di aver contribuito bastevolmente alla risposta alla domanda posta nel titolo: “Il Dante esoterico: una tematica abusata?”. No, a patto di non perdere i crismi essenziali della ricerca e, soprattutto, di non ammalarsi di danbrownite acuta.

Alberto De Marchi

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