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RECENSIONE :

Emanuele Pavoni

Pubblicata su:

ARTHOS 30 - 2021

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SANDRO CONSOLATO

Urbs Aeterna

Misteri – Figure – Rinascite del Paganesimo

Edizioni ArÅ·a, Genova 2019.

Pagine 156 - € 20,00

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Urbs Aeterna” è il frutto della raccolta ragionata e riesaminata di precedenti testi di Sandro Consolato, più un saggio inedito e un altro consistente nella rielaborazione scritta della relazione tenuta dall’Autore durante una conferenza. Tuttavia, non si tratta di una pura e semplice miscellanea, perché il tutto è organicamente unito dalla consapevolezza dell’esistenza di misteriose forze spirituali che agirono e condizionarono, dal suo interno e in modo invisibile, la storia di Roma antica e che, come viene spiegato nel capitolo dedicato al confronto con la tradizione tibetana dei gterma, certamente continuano ad esistere e potrebbero manifestarsi ancora: pensiamo in primo luogo ai sette  pignora imperii (Servio ne elenca appunto sette, ma il loro numero varia secondo altri autori antichi), cioè una serie di oggetti dal valore di talismani, garanti del supporto di potenti e benefici influssi spirituali, e che concedevano a Roma e al suo Impero una protezione magica, e che verosimilmente potrebbero essere stati nascosti con l’avvento del Cristianesimo, in modo che non fossero profanati, e forse affidati in segreto ad alcune illustri famiglie romane, per custodirli nei secoli). 

Infatti, dalle pagine del libro, ad emergere olimpicamente è la forza sacrale e iniziatica di Roma, il suo universalismo, che, al di là del fluire incessante del tempo, resta sempre presente e fecondo (proprio perché di origine divina), autentico polo di attrazione per tutto il mondo, in grado di unificare dall’alto e verso l’alto ciò che sulla terra appare disperso, capace di dare unità a popoli diversi, instaurare l’ordine dove regna il caos, irradiare la luce dove spadroneggia l’oscurità; magistrali al riguardo le pagine in cui Consolato descrive acutamente Marco Aurelio come perfetta incarnazione dell’archetipo indo-ario del Chakravartin, (ovvero colui che fa girare la ruota del Dharma, l’Imperatore universale), in virtù della straordinaria capacità sua e di Roma di saldare sapienza filosofica ed iniziatica, impegno politico e militare, forte senso della libertà e della giustizia. Per questo il titolo, “Urbs Aeterna”. 

Proseguendo nella lettura, si ha modo di osservare questi invisibili influssi spirituali emergere prodigiosamente in alcuni casi e ritrarsi (apparentemente) in altri, passando vorticosamente dalla rivoluzione (anzi, sovversione) religiosa promossa da Costantino (il quale, prima di favorire il Cristianesimo, con la sua giovanile devozione al Sol Invictus, era già assai vicino ad una visione monoteista del Divino e dell’Impero come monarchia assoluta, in contrasto con la grandiosa, per quanto effimera, restaurazione religiosa in senso romano-italico operata da Diocleziano, che, al contrario del culto solare, poneva la tetrarchia direttamente sotto la protezione di Giove ed Ercole), agli eroici e generosi tentativi di restaurazione dell’antica religio da parte degli ultimi grandi pagani (personaggi come Giuliano Imperatore, Quinto Aurelio Simmaco, Vettio Agorio Pretestato e Virio Nicomaco Flaviano), dalla riscoperta nel Medioevo della missione divina dell’Imperium romano cantata da Dante (in Convivio IV, 11 scrisse: “quello popolo santo nel quale l’alto sangue troiano era mischiato, cioè Roma, Dio quello elesse”, sottinteso, all’Impero) alla riemersione della tradizione pagana in ristretti circoli sapienziali nel Rinascimento italiano (come ben evidenziato nei capitoli dedicati a Giulio Pomponio Leto e a Leon Battista Alberti). 

Di conseguenza, dall’insieme, risplende nitidamente la dimensione religiosa e pia dell’antico civis Romanus, uomo severo e austero, dotato di un aristocratico senso del dovere, attento alla giustizia e chiamato a governare rettamente i popoli (esemplare la conclusione, dal valore quasi di preghiera, dell’opera di Velleio Patercolo, in cui viene chiesto sì agli Dèi di assistere l’Impero, a patto però che i disegni dei Romani continuino ad essere conformi al volere divino, o in caso contrario di annientarli pure senza pietà). Perché troppo spesso gli storici moderni hanno letto e interpretato la storia di Roma in termini esclusivamente terreni (politici, militari, sociali, economici, etc) e mai da un punto di vista più devozionale; istruttivo è il confronto che Consolato fa tra l’incendio di Roma da parte dei Galli nel 390 a.C. e il sacco da parte dei Visigoti nel 410 d.C., in cui è la pietas dei cittadini romani a fare la differenza: nel primo caso, infatti, mentre Roma veniva messa a ferro e fuoco, la pietas di Lucio Albino (che portò in salvo a Cere i sette Sacra e i Penati, evitando che fossero profanati o distrutti) garantì la continuità del culto, e quindi, per esteso, la salvezza e la rinascita di Roma, mentre nel secondo caso, nonostante le precedenti vittorie militari da lui riportate, Stilicone, a causa della sua empietà (per ragioni ancora non chiare fece bruciare i Libri Sibillini, e forse rivelò anche il Nome Arcano di Roma), privò l’Urbe della sua protezione celeste facendola così cadere. 

In definitiva, il libro mostra il vigore, la continuità e la resistenza della Tradizione Romana lungo i secoli, come, non casualmente, ben testimonia questo passo di Seneca: “Certi fiumi cadono manifestamente in qualche cavità sotterranea e si sottraggono così al nostro sguardo. Altri diminuiscono e scompaiono; gli stessi ricompaiono dopo un po’ e riprendono il loro nome e il loro corso. La causa è chiara: sottoterra ci sono delle cavità e tutti i liquidi tendono per natura verso il basso e verso il vuoto. Pertanto, i fiumi raccoltisi in esse seguono invisibilmente il loro corso, ma appena incontrano qualche ostacolo solido, sfondata la zona che oppone meno resistenza, riprendono il loro corso” (Naturales Questiones, III, 26, 3). Come pure, molto spesso, è suggestiva quella sottile rete spirituale che unisce uomini diversi e vicende a prima vista indipendenti tra di loro: come spiega Consolato, non è certo un caso se Leon Battista Alberti (proprio perché inserito in un cenacolo iniziatico impegnato a riscoprire la sapienza antica, grazie al sostegno che gli diede il cardinale Prospero Colonna, altro amante della romanità) fu chiamato a Rimini da Sigismondo Pandolfo Malatesta a lavorare alla chiesa di San Francesco, dove, peraltro, sono custodite le spoglie di Giorgio Gemisto Pletone (recuperate dallo stesso Malatesta in Grecia quando vi guidava le armate veneziane), cioè l’uomo che fu considerato come l’ultimo degli Elleni, artefice di un breve ma intenso risveglio pagano a Mistrà, mentre la morente Bisanzio si avvicinava alla sua fine, nonché maestro di Giorgio Bessarione, colui che, accompagnandolo in Italia, aveva dato inizio alla riscoperta del platonismo e favorito la nascita dell’Accademia Platonica di Marsilio Ficino e dei circoli iniziatici romani a cui Alberti fu introdotto.

Del resto, aggiungiamo noi, come non vedere perfino nella tumulazione del nostro Milite Ignoto – esattamente cent’anni fa, e proprio sotto la statua della Dèa Roma – una nuova, per quanto fugace, Pax Deorum? I ricordi e i filmati di allora non mentono: il corteo composto dal Re, la sua famiglia, le alte cariche dello Stato, reduci e veterani della guerra vittoriosa, famiglie intere, madri e vedove, padri e figli, delegazioni da tutta l’Italia, con gratitudine e commozione, si raccolsero presso l’Altare della Patria intorno alla salma di un caduto ignoto, simbolo del sacrificio di un popolo intero (che seppe superare ogni individualismo per il bene superiore della Patria), suggello di una raggiunta concordia fra lo Stato, inteso come la comunità dei cittadini (Senatus Populusque Romanus, come si diceva ai tempi dei nostri antenati) e il mondo divino, armonia antica e sempre nuova. Aeternitas Romae

 

Emanuele Pavoni

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