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RECENSIONE :

Emanuele Pavoni

Pubblicata su:

ARTHOS 31 - 2022

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Julius Evola

LE SACRE RADICI DEL POTERE

Scelta di saggi politici 1929-1974

A cura di: Renato del Ponte

 

Pagg. 288

Anno di pubblicazione: 2010

 

LA REGINA E IL BARONE

UN BILANCIO DELL'IDEA MONARCHICA 

FRA L'EMOZIONE DELL'ADDIO A ELISABETTA II 

E IL RIGORE FATALE DELLA TRADIZIONE NEGLI SCRITTI DI EVOLA


 

Al di là delle riserve che si possono a buon diritto nutrire per la dinastia dei Windsor, bisogna riconoscere che Elisabetta II, venuta a mancare l’8 settembre 2022, ha incarnato in quest’epoca decadente, tanto da essere prossima al crollo, qualcosa di archetipico, mitico ed eterno, quindi ipso facto scandaloso e affascinante. Non alludiamo al semplice mestiere di Re di cui parlava Luigi XIV nelle celebri istruzioni al Delfino, ma ad un vero e proprio destino – epico e tragico, per definizione –, ad una vocazione talmente esclusiva da essere riservata solo a coloro che Dio ha scelto tra tanti (non a caso nella famosa incoronazione del 1953, che Churchill non avrebbe voluto registrare e trasmettere in televisione, gli istanti della comunione e dell’unzione della nuova sovrana non furono filmati, perché non dovevano essere oggetto dello sguardo di occhi profani). Come vedremo, aveva ragione Evola quando scriveva che quello del Re è un vero e proprio sacerdozio, un sacrificio personale che richiede ogni attimo della propria vita mortale. Ciò si evince perfettamente dall’immagine di questa principessa di sangue reale, nata per essere regina (almeno potenzialmente, come ricordava quasi tre secoli fa anche Maria Teresa d’Austria ai suoi figli e alle sue figlie), sovrana dalla culla alla tomba. Del resto, chi può essere così ingenuo da credere che sia un caso la sua morte in Scozia? Al contrario, siamo sicuri che sentendo la fine avvicinarsi, abbia scelto di spegnersi dove i moti indipendentisti sono sempre più vivaci, proprio per sottolineare il carattere unitario del suo Regno. Elisabetta non si è tolta la corona neanche sul letto di morte, una fermezza d’acciaio. E se si guardano le scene in cui è in divisa a guidare la sfilata delle Royal Guards, ci rendiamo conto che se fosse vissuta in altri tempi – “Quando i Duchi erano veramente Duchi”, come diceva Churchill nei momenti in cui, sospirando, ripensava al secolo che vide le gesta del suo avo Marlborough, e quindi, per esteso, quando i Re erano veramente Re – sarebbe stata sicuramente una grande sovrana guerriera, conquistatrice, legislatrice (l’Inghilterra gode curiosamente di un continuum di Regine ardimentose che va da Budicca a Maria I Tudor, a Elisabetta I, a Vittoria e a Elisabetta II). Lo ripetiamo, quello del Re è un sacerdozio, per di più a vocazione squisitamente maschile, che nel caso venga ricoperto da una donna esige da questa un surplus di sacrificio e di ascesi, quasi a virilizzarsi e a dominare non solo ciò che è “umano, troppo umano”, comune a chiunque, ma anche la sua specifica natura di donna (esattamente come disse pubblicamente Elisabetta I poco prima di affrontare gli spagnoli: “So di avere il corpo debole e delicato di una donna; ma ho il cuore e lo stomaco di un Re, e per di più di un Re d’Inghilterra”). Cosa che si vide, ad esempio, quando, da giovane, appena tornata in patria dopo mesi di viaggi di rappresentanza all’estero, Elisabetta diede asetticamente la mano alla madre, alla sorella, al cugino e al figlio di pochi anni, il quale dovette accennare un inchino, perché anche lui, seppur un bambino, era un principe, quindi con un ruolo di Stato. E lei era Regina prima ancora che madre. Lo sappiamo, non è mai facile tirare i fili di una vita, ripensare alla bambina che giocava in campagna con gli amati cani corgi, alla ragazza energica e volitiva che fa il suo dovere mentre Londra è sotto le bombe nella Seconda guerra mondiale, alla sovrana che tentò di rendere costantemente testimonianza della sua missione di guida, anteponendo sempre la corona a se stessa (non ha mai concesso un’intervista, né ha mai parlato in pubblico di sue faccende personali, financo dolorose). Anche per questo la sua fu una vita di enorme solitudine: ultima nata ed educata in una società all’antica, dovette assistere allo sbando delle nuove generazioni dei Windsor, mediocri, impulsivi e senza qualità; proprio lei che del sacrificio individuale, dell’impersonalità del ruolo e della solidità coniugale aveva fatto la sua cifra, vide i matrimoni dei figli fallire miseramente, e le pagine dei giornali riempirsi di gossip umilianti. Ma è così che finisce la Storia, con tragedie eclatanti e sanguinose, oppure si spegne lentamente, nella mestizia, nella solitudine e nell’incomprensione: la stragrande maggioranza delle persone che oggi dice di piangerla, neanche si rende conto di tutto ciò, attratta non dalla natura metapolitica della regalità, ma dal conformismo di andare a Londra appositamente per farsi un selfie al cambio della guardia, oppure, come nei giorni appena trascorsi, in occasione del cordoglio per la sua morte, solo per rumoreggiare scompostamente in nome del proprio protagonismo (già il fenomeno Lady Diana fu istruttivo di questo cambio di passo, quando la nazione inglese, per definizione tanto rigorosa e altezzosa, era caduta in una frenesia talmente isterica e infantile da far sembrare pacata e composta la folla latina che gridava e piangeva nei comizi di Eva Peròn). Purtroppo, per farsi amare, la Regina dovette diventare un personaggio pop e la famiglia reale un reality. Infine è arrivata la Morte, che ha il singolare privilegio di disvelare ogni inganno e ogni sciocchezza, restituendo alla sua figura la sua naturale dimensione di grandezza ed enigmaticità. 

Ebbene, la morte di Elisabetta II offre non solo l’occasione per tratteggiare un suo ritratto, ma anche per fare un bilancio dell’istituto monarchico, facendo chiarezza sulla sua reale natura e ovviamente ponendoci la domanda su quale possa essere oggi il suo destino in Europa. Dipenderà da tanti fattori, in primis da un imprescindibile recupero di solidità a livello dottrinale, come avrebbe detto Evola, perché per lui il potere, e quindi la sovranità, non deriva da una concezione meramente politica, laica, perciò contrattuale e democratica, come purtroppo siamo abituati a pensare, ma viene dall’Alto, dall’Invisibile, dal Trascendente, avendo natura assolutamente sacrale. Leggendo la bellissima antologia di testi evoliani Le sacre radici del potere (Edizioni Arya, Genova 2010), che consigliamo a chiunque voglia approfondire questi argomenti e di cui citeremo diversi passaggi, si può scoprire che ogni vera civiltà tradizionale ha visto nel Re una figura che, in virtù di una sua innata o acquisita superiorità, incarnava la presenza viva e vivificante del principio metafisico nell’ambito dell’ordine temporale, svolgendo, in altre parole, il ruolo di pontifex, cioè di ponte fra naturale e sovrannaturale, fra umano e divino, fra fisico e metafisico, facendo coincidere in se stesso divinità regale e regalità sacerdotale. Ciò è dimostrato chiaramente dalla consacrazione dei sovrani, che non era ritenuta una mera cerimonia teatrale, ma un rito avente la portata di un’azione reale, dall’effetto sì spirituale ma realmente capace di incidere nella realtà materiale, convogliando potenti e misteriose influenze spirituali (in ambito cristiano si sarebbe parlato di Spirito Santo) nella persona del Re, il quale solo a partire da quel momento diventava veramente tale (nelle monarchie cattoliche, prima della consacrazione, il sovrano indossava l’abito militare e solo dopo di essa veniva rivestito anche dell’abito regale), cioè molto più di un uomo, un essere sacrale e sovraumano, una vera divinità in terra, dalla valenza cosmica, di centro di stabilità, di polo ordinatore di ogni cosa (lo scettro stesso rimandava al concetto di “asse”, analogo a quello di “polo”, quindi all’idea di “ordine”), di vittoria del Cosmos sul Caos (perciò risulta assai comprensibile come il passaggio della corona di padre in figlio, attraverso la continuità e l’esclusività dello stesso sangue, fosse il modo più diretto e ovvio per agevolare la trasmissione, di generazione in generazione, di queste influenze spirituali). Di conseguenza, il potere del Re s’imponeva da solo, irresistibilmente, in modo naturale, immediato, diremmo addirittura magnetico, riconosciuto spontaneamente da tutti, perché solo lui, dotato di questa forza extraumana, poteva compiere legittimamente e correttamente i riti e aprire agli uomini le vie al mondo superiore – e ciò mostra, indirettamente, l’insensatezza dell’idea secondo cui siano coloro che governa a conferirgli il potere, nonché la miopia di chi ritiene che questo potere provenga da un atto di forza bruta o dall’esercizio di un’intelligenza machiavellica, come invece può avvenire nel caso di un’autorità profana o addirittura illegittima. Peraltro, giova precisare che, in generale, l’obbedienza e la reverenza dei sudditi non è resa alla persona in quanto tale, ma alla sua funzione di sovrano che ne trasfigura la persona, la divinizza (infatti, quando sale al trono, ogni sovrano adotta un nuovo nome, che si sceglie lui stesso o che gli si sceglie). Ora, se secondo la visione comune cattolica l’autorità regale è inferiore e subordinata a quella sacerdotale, dalla quale i Re ricevono la loro consacrazione, Evola ci ricorda opportunamente quanto segue: “Perfino in una tradizione in cui le caste sacerdotali ebbero tanto prestigio, quale quella upanishadica, si trova detto, in un testo, che nel momento della consacrazione il sacerdote venera umilmente i Re, perché essi vanno a corrispondere analogicamente ai valori delle più alte gerarchie divine. Il senso di ciò, è che le caste sacerdotali, se possono considerarsi come le depositarie dello spirito consacrante e delle influenze sottili ed efficaci che vi si legano, questo spirito, tuttavia, quando investe un essere qualificato secondo virtù di forza e di pura virilità – ecco il senso simbolico delle vesti di guerriero, rivestite prima di quelle regali – viene a una esaltazione e una individuazione, tanto da costituire una forma superiore a quella, per così dire, diffusa, impersonale e priva di centro affermativo, che è da riferirsi alla spiritualità sacerdotale. Può dirsi che il Re e il sacerdote corrispondono rispettivamente al polo maschile e al polo femminile, nei riguardi del rapporto con lo “spirito santo” e le influenze spirituali”. In tal modo, queste influenze spirituali, per mezzo dei Re su cui erano state indirizzate, “si irradiavano nel mondo degli uomini innestandosi ai loro pensieri, alle loro intenzioni, ai loro atti; facendo da diga alle forze oscure della natura inferiore; ordinando la vita complessiva così da renderla atta a servire da base virtuale per realizzazioni di luce; preparando dunque condizioni generali di “prosperità”, di “salute” e di “fortuna””. Alla regalità, poi, veniva quasi sempre associata la stessa “gloria” e “vittoria” del sole, perché esso, per antonomasia simbolo della natura superiore, con la sua luce trionfava ogni mattina sulle tenebre e rinnovava quotidianamente la vita. Pensiamo, ad esempio, all’antica tradizione egizia, in cui il faraone compiva periodicamente i riti che riproducevano la vittoria del dio solare Horus su Tifone-Seth, demone del mondo inferiore. Scrive Evola: “L’ideogramma Uas, “forza”, è lo scettro portato dagli Dèi e dai Re, ideogramma che nei testi più antichi si mutua con un altro scettro di forma spezzata, ove si riconosce lo zig-zag del lampo. La “forza” regale appare così come una manifestazione della forza celeste folgorante; e l’unione dei segni “vita-forza”, Anshus, forma una parola la quale designa anche il “latte di fiamma” di cui si alimentano gli immortali, a sua volta non privo di relazione con l’Uraeus, la fiamma divina, ora vivificante, ora terribilmente distruttrice, il cui simbolo cinge la testa del Re egizio. I vari elementi convergono dunque nell’unica idea di un potere o fluido “non terrestre” – Sa – che consacra e testimonia la natura solare-trionfale del Re e che dall’un Re si “lancia” all’altro – Sotpu – determinando l’ininterrotta e “aurea” catena della “stirpe divina” designata al “regere””.

Lo ribadiamo, la gloria e la vittoria solare di cui stiamo parlando non erano percepiti come affascinanti metafore, ma come un qualcosa di reale e di operante attraverso la figura del Re, nel quale si identificava il principio metafisico. Emblematica è l’antica espressione mazdea dell’Hvareno, designante la gloria del sovrano, vista come un fuoco sovrannaturale, proprio della sfera celeste, che lo rende partecipe dell’immortalità e gli dona la vittoria (da intendere sia in senso mistico che materiale, in primis militare), e che presso i Romani veniva unita all’idea di “Fortuna”, cioè la “Fortuna Regia” che i Cesari si trasmettevano l’uno l’altro (l’attributo di “Felix” trova il suo senso proprio in quest’ottica, cioè al possesso da parte dell’Imperatore di una virtus di natura divina). È un continuum che lega la regalità, il simbolo del sole nascente (vittorioso ad ogni alba sull’oscurità), con la sua maestà e potenza, e lo stesso colore rosso, che rimandava all’immagine di un fuoco divino che assumeva sia valenza distruttrice e purificatrice che vivificante e illuminante (del resto, a ciò va riconnesso anche lo stesso simbolismo della porpora che ricopriva le vesti imperiali). Di più ancora, nell’antica India ariana si credeva che un fuoco divino, chiamato Agni Vaisvareavas, accompagnasse i grandi conquistatori, identificandoli come “Signori Universali”, Chakravarti. Scrive Evola: “Si potrebbe fors’anche stabilire una relazione fra il simbolismo relativo a tale fuoco e il simbolismo del rivolgimento o rivoluzione della ruota allegorica intorno ad un suo centro immobile ad ausilio di quel che è stato accennato sull’opposizione fra il significato tradizionale e quello moderno dello stesso concetto di rivoluzione [qui Evola allude al fatto che mentre oggi col termine “rivoluzione” intendiamo una cesura radicale e violenta rispetto ad un precedente stato di cose, nel mondo tradizionale invece ci si riferiva ad un’idea di ritorno allo stato originario e ad un moto ordinato intorno ad un centro immobile, come, peraltro, testimonia il linguaggio astronomico, secondo cui “la rivoluzione di un corpo celeste è appunto il movimento che esso compie gravitando intorno ad un centro, centro che ne vincola la forza centrifuga, obbedendo alla quale esso si perderebbe nell’infinito spazio”]. Infatti, Chakravarti, vuol dire, letteralmente, “Volgitore della Ruota” – della ruota del Regnum – e noi qui abbiamo appunto l’idea di un principio sovrano di stabilità e di immutabilità, di un motore immobile, intorno a cui gravita ogni attività inferiore e che col suo potere spirituale occulto e irresistibile determina il movimento e l’ordinamento, secondo giusto fine, delle cose che da lui dipendono. Peraltro, questa “ruota”, come “Ruota della Legge”, apparirebbe anche in visione ai predestinati all’Impero: ed allora essa equivale anche al simbolo di una forza che tutto travolge, di una ruota turbinosa che si porta innanzi schiacciando e lasciando dietro di sé tutto ciò che è nemico, inferiore, barbarico, “demonico”, equivale cioè al “fuoco”, all’Agni Vaisvareavas dei conquistatori”.

È facile, a questo punto, capire perché nel Re si vedesse il vero responsabile della fortuna o della sfortuna del suo popolo, della sua vittoria o della sua sconfitta, e di come presso non pochi popoli fosse legittimo deporlo o ucciderlo in caso di gravi sciagure, perché tale situazione faceva dedurre che in lui era venuta meno quella misteriosa e potente forza spirituale che legittimava il suo status di vertice e di centro. Esemplificativo di tutto ciò è il caso dell’Imperatore cinese; scrive Evola: “Secondo la tradizione estremo-orientale il Re, figlio del Cielo – T’ien-tze – cioè non nato secondo la nascita mortale, ha il mandato celeste, T’ienming, che implica parimenti l’idea di una forza reale estranaturale. Il modo di questa forza dal cielo è, secondo l’espressione di Lao-tze, ‘agire senza agire’ (wei-wu-wei), ossia azione immateriale per presenza. Essa è invisibile come il vento, purtuttavia la sua azione ha l’ineluttabilità delle energie della natura: “Le forze degli uomini – dice Meng-tze – vi si piegano, come i fili d’erba si piegano sotto il vento”. Stabilito in tale forza o virtù, il sovrano nell’antica Cina costituiva effettivamente il centro di ogni altra cosa o energia. Si riteneva che dal suo comportamento dipendessero occultamente, non soltanto i fasti o le sciagure del suo regno o le qualità morali del suo popolo (è la virtù – Te’ – del Sovrano, non tanto il suo esempio, a far buona o cattiva la condotta del suo popolo), ma altresì l’andamento regolare e propizio degli stessi fenomeni naturali. La sua funzione di centro implicava la sua stabilità in quell’interiore, “trionfale” modo d’essere di cui si è detto, e a cui si può far corrispondere il senso della nota espressione: “invariabilità nel mezzo”. Ma quando ciò fosse stato, nulla avrebbe avuto, contro la sua “virtù”, il potere di alterare il corso tradizionalmente ordinato delle cose umane e della stessa natura. Di ogni avvenimento anormale, il Sovrano doveva dunque cercare in sé la causa prima e l’occulta responsabilità”.

Anche nello sterminato poema nazionale persiano, lo Shahnameh di Firdusi, leggiamo che l’influenza del mondo celeste abbandonò l’antico Re Yima non appena cominciò a mentire (ci si ricorderà che anche Erodoto scrisse che ogni persiano insegna al figlio tre cose: andare a cavallo, tirare con l’arco e dire sempre la verità). E quando un sovrano perdeva la sua benedizione dall’Alto, allora questa poteva benissimo trasferirsi ad un altro uomo, purchè sapesse esserne degno e dimostrarlo. Il mito del Re del Boschi di Nemi è istruttivo al riguardo, perché ci mostra come la dignità regale di questo misterioso personaggio potesse passare solo ad uno “schiavo fuggitivo” che, grazie al possesso di un ramo della quercia sacra (significante che, dal punto di vista esoterico, costui si era liberato dai vincoli della natura inferiore, esattamente come il ramo d’oro aveva consentito ad Enea di entrare ancora da vivo negli inferi, cioè nel mondo dell’Invisibile) lo avesse ucciso in combattimento. E poiché il ramo della quercia sacra rimanda all’Albero del Mondo di altre tradizioni, simbolizzante la potenza primordiale della vita, allora si capisce perché solo qualcuno che avesse acquisito tale forza avrebbe potuto diventare il successore del Rex Nemurensis, subentrandogli anche nelle “nozze” con Diana, come suo nuovo sposo-sacerdote, essendo il Bosco di Nemi a lei sacro. Ebbene, tanti altri miti seguono questo schema, associando figure femminili (dee, principesse o maghe) ad alberi sacri, presentando degli eroi che si uniscono in “nozze” con loro, o direttamente, quando queste sono la personificazione della forza primordiale della vita, o indirettamente, quando queste sono le custodi di frutti di sapienza superiore e di immortalità (basti pensare ai miti di Eracle, Giasone o Gilgamesh). L’albero, per esteso, arrivò anche ad assumere la valenza di simbolo dell’idea imperiale, della sua missione (pensiamo al celebre sogno di Osman, in cui il fondatore dell’Impero Ottomano intravide un albero gigantesco che si estendeva sterminato su terre e mari, a profetizzare le grandi conquiste che avrebbero compiuto i suoi discendenti). Retaggi di tutto ciò, segnali che certificavano la natura sopranaturale del Re e la sua legittimità, li possiamo riscontrare nell’idea medievale per cui il suo tocco guarisce i malati (“Il Re ti tocca, Dio ti guarisce”), o nella convinzione che in una sorta di “prova delle armi”, di ordalia, solo il sovrano legittimo sarebbe uscito vincitore dal duello contro il nemico (anche nel ciclo arturiano c’è qualcosa del genere, ove solo il vero Re avrebbe potuto estrarre la spada dalla roccia). Re, non dimentichiamolo, è sempre e solo chi traccia la linea fra il cielo e la terra, che indica la strada da seguire, incarnando ciò che è retto, e che quindi – come ricorda un antico adagio – nulla teme. 

Ebbene, nella sua essenzialità, questo è quanto dovremmo recuperare a livello dottrinale (quindi come mentalità collettiva), ma non in nome di un’erudizione fine a se stessa, perché porsi nell’ottica della Tradizione non vuol dire essere ciechi conservatori di ciò che nel frattempo è morto, ridotto ad un guscio vuoto (come, ad esempio, può essere una specifica monarchia se si è secolarizzata e democratizzata), bensì difensori di ciò che è vivo, sempre vivo, perché trattasi di principii che, per loro natura, vanno al di là delle contingenze storiche, conservando perenne attualità. Se le monarchie europee sono decadute o scomparse è perché, da un lato, coloro che erano sovrani non sono stati all’altezza della loro funzione e non hanno saputo comprendere o affrontare adeguatamente l’incipiente civiltà moderna (per Evola è paradigmatico l’esempio della monarchia francese che, già a partire dai tempi di Filippo il Bello, aveva avviato il lungo processo storico che, smantellando progressivamente l’antico ordinamento feudale a favore della costruzione di un organismo statuale forte, accentratore, nazionale e borghese, l’avrebbe condotta ad essere la prima ad assaggiare l’immane violenza della rivoluzione e a cadere), dall’altro lato, perché si è avuta una tendenza che ha portato i popoli a degradare in masse, a secolarizzarsi, a perdere la sensibilità spirituale per certe cose di capitale importanza.

Scrive Evola: “La fides, il rapporto vivo e virile da inferiore a superiore, da potenziarsi via via fino al senso, che con tale fides, con tale dedizione si giunge a partecipare a qualcosa di superindividuale e di supermondano, che poi non è la semplice “anima” della nazione quale entità naturalistica, bensì il punto in cui la nazione diviene il corpo in cui si manifesta vittoriosamente una forza dall’Alto – laddove un simile ideale perde la sua forza, la monarchia non è più che una sopravvivenza, un simbolo svuotato, e il sistema monarchico scende, come dignità, allo stesso piano di un qualunque altro regime politico, di contro al quale non possiede nessun più alto diritto. Una monarchia secolarizzata è una monarchia che ha scavato a se stessa la propria fossa. Tuttavia, si deve anche aggiungere questo: il semplice principio non saprebbe essere sufficiente, un ambiente è necessario, quanto ad un germe, per un suo sviluppo, un suolo adatto”.

È per questa ragione che Evola non esorta a farsi sostenitori di una singola e specifica monarchia, ma della Monarchia in quanto tale, non essendo affatto un residuo anacronistico del passato, ma un’idea-forza da far valere, in grado di fornire un possente punto di riferimento, un orientamento unitario, e un’efficacia insospettabile a quelle energie e a quegli sforzi tesi a combattere la prospettiva sempre più incombente della decadenza. Anzi, come osserva Evola, “i periodi in cui la Monarchia “non è attuale” sono semplicemente da considerarsi come quelli in cui il suo principio è divenuto latente, in cui esso è passato allo stato potenziale. Potremmo dunque dire che sono dei periodi di “interregno”. In altre epoche, quando lo sguardo era capace di abbracciare spazi storici di un’ampiezza ignota all’uomo moderno, quest’idea fu chiaramente espressa in miti ricorrenti nelle civiltà più varie d’Oriente e d’Occidente. Si tratta del motivo di un sovrano o di un eroe che, in realtà, non è mai morto, ma che si è ritirato in una sede invisibile o inaccessibile, dalla quale un giorno potrà rimanifestarsi”.

La mente corre subito ad Artù, al Dodicesimo Imam (L’Imam nascosto della tradizione sciita), a Federico Barbarossa (almeno, secondo certe immagini del folklore tedesco) o, per certi versi, anche ad alcuni aspetti del movimento giacobita scozzese o del carlismo spagnolo. Invero, la superiorità della Monarchia sulla democrazia, o su qualsiasi altro sistema politico, non va cercata da un punto di vista semplicemente tecnico, pratico, bensì in termini spirituali e ideali, perché solo essa, attraverso il Re, simbolo vivente e personalizzato (autentico elemento supernazionale immanente in una nazione), sa veicolare l’idea di trascendenza, continuità e stabilità di un supremo principio di autorità, sottratto agli influssi della sfera profana e delle sue contingenze; che in virtù della sua funzione di centro, anima una corrente invisibile che va dall’Alto verso il basso (mai viceversa, come purtroppo avviene nelle democrazie), che dona organicità alla società intera, un’intima connessione alle sue varie componenti; che plasma virilmente e attivamente il corpo altrimenti informe di una nazione (anticamente, infatti, si combatteva per l’onore del proprio Re, e non per la “patria” o la “nazione”, concetti diventati degli assoluti solo con le ideologie moderne), essendo altresì essa sola, la monarchia, investita del dovere di agire prontamente allorchè vi siano dei pericolosi sbandamenti (“Re è colui che nulla teme”). Il potere monarchico, infatti, non va confuso con l’arbitrio e il capriccio di un tiranno (compresa la “tirannia della maggioranza” nelle democrazie), come opportunamente ricordato da Sir Charles Petrie, autore stimato da Evola: “il Re non era il despota, soggetto a nessun’altra legge fuor da quella da lui stesso fatta, bensì una parte integrante del sistema di cui era capo. La sua corona era un emblema di fedeltà verso il suo popolo e i suoi diritti e doveri erano definiti così esattamente, quanto quelli dei suoi sudditi. Tale era invero il carattere distintivo del regime feudale: ognuno aveva il suo posto definito nel tutto sociale, posto che gli corrispondeva e di fronte al quale egli era responsabile”.

In una democrazia, poi, è impossibile parlare di una religio regalis e di quello che un tempo si concepiva come un sacramentum fidelitatis dei sudditi, cioè della vera e propria dignità sacramentale risiedente nel loro dovere di fedeltà verso il sovrano, fonte di un’etica speciale, quasi di una mistica della gerarchia, della lealtà, dell’onore, della fierezza dell’essere suddito di un grande Re, quindi del sacrificio e dell’abnegazione personale; valori questi che, ipso facto, non possono trovare adeguata espressione quando è assente la poderosa e fatale figura del sovrano. “Che l’uomo – puntualizza Evola – non sia sempre all’altezza del principio e di una “ascesi della potenza”, non importa: la sua funzione resta sempre imprescrivibile ed intangibile, poiché non è all’uomo, ma al Re che si obbedisce e la sua persona vale essenzialmente come un supporto a che si desti quella capacità di dedizione superindividuale, quell’orgoglio nel servire, quella prontezza all’azione e al sacrificio attivo, che vanno a costituire una via di elevazione e di dignificazione per il singolo e, nello stesso tempo, la forza più potente per tener insieme la compagine di un organismo politico”.

Va eliminato il nefasto atteggiamento mentale – dietro cui si cela spesso l’occulta azione delle forze della sovversione – di estendere la condanna di un singolo sovrano indegno allo stesso principio monarchico, perché troppe volte è stato incentivato per realizzare un ribaltamento istituzionale (da notare che perfino al momento di costituire la Repubblica Sociale Italiana, Evola tentò di convincere Mussolini e i tedeschi della necessità di dichiarare decaduto Vittorio Emanuele III e di proclamare un nuovo sovrano, e non di abolire hic et simpliciter la monarchia: “Il mio punto di vista era che ogni processo contro la persona del rappresentante di un principio non deve mai essere esteso al principio in se stesso; semmai, a chi scarta va sostituito chi sia all’altezza del principio”). D’altronde, ogni uomo che conservi una sensibilità non ancora del tutto avvelenata dalla modernità percepisce la sottile ma abissale differenza che corre fra l’autorità di un vero e legittimo signore, un Re, e un qualunque altro capo che, anche se dotato di grandi qualità, fonda il suo potere unicamente sul favore delle masse, sulla loro emotività ed ignoranza: nel primo caso, sorge spontaneo il desiderio di obbedirgli in virtù di un “pathos della distanza”, come se ci si trovasse davanti ad un essere dotato di una natura superiore (“Non si vede perché ci si debba subordinare quando il capo, alla fin fine, è semplicemente uno come noi, quando non viene avvertita una distanza essenziale, come nel caso del vero sovrano. Così un “pathos della distanza” – per usare un’espressione di Nietzsche – dovrebbe sostituirsi a quella della vicinanza, in rapporti che escludono ogni superba tracotanza da una parte, ogni servilismo dall’altra»); nel secondo caso, al contrario, lo si segue per un assurdo “pathos della vicinanza”, all’insegna dell’uguaglianza (nelle democrazie, i presidenti sono solo dei funzionari con una carica a scadenza, nient’altro che dei borghesi come gli altri), per cui, come si dice oggi, “è uno di noi”, “interpreta la volontà popolare” e così via. Nell’ottica tradizionale, infatti, non è mai il popolo a fare il Re, a sceglierlo, potendo solo riconoscerlo come tale e quindi confermarlo; e ciò vale anche nel caso in cui il sovrano sia elettivo, come dimostra l’esempio del Papa che, benché eletto da un conclave, non trae di certo la sua autorità dagli uomini che lo hanno votato. Un Re non deve mai rimettere il suo destino nelle mani del popolo, sentirsi vincolato da esso, perché egli è responsabile solo davanti a Dio. Una monarchia democratica è un ossimoro colossale. Evola giustamente stigmatizza l’opportunismo dei Savoia che avevano cavalcato le montanti istanze borghesi e liberali (e non quelle antiche dei loro avi) per arrivare all’unificazione nazionale (non dimentichiamo che con la morte senza figli di Carlo Felice, si era estinta la linea principale della casata, quella legittimista, facendo pervenire la corona al nipote Carlo Alberto, cioè al ramo cadetto dei Savoia-Carignano, di pericolose simpatie liberali); come anche la miopia che dimostrarono quando si proclamarono Re d’Italia per “grazia divina”, ma anche “per volontà della nazione”, ovvero attraverso plebisciti, permettendo che il popolo si appropriasse di prerogative che non gli erano proprie, compreso lo stesso destino della monarchia, come si vedrà al momento del referendum del 1946. La stessa passiva accettazione del-l’esito referendario da parte di Umberto II equivalse per Evola ad una gravissima manchevolezza; al contrario, secondo lui, Umberto II avrebbe dovuto lottare fino in fondo, anche a costo di scatenare nuove divisioni e scontri (“Re è colui che nulla teme”). Non bisogna, infatti, lasciarsi ingannare dal noto assioma per cui il sovrano deve rappresentare asetticamente, con neutralità, la nazione nella sua interezza, e non una fazione, una definita visione delle cose; tutt’altro, un Re che appunto “regna ma non governa”, che fa da soprammobile decorativo, abdica già in partenza da se stesso, perché è inutile, non si assume alcuna responsabilità, rinuncia ad intervenire laddove la sua azione rettificatrice ed ordinatrice si renderebbe necessaria (lo ripetiamo nuovamente, “Re è colui che nulla teme”). Certo, nei tempi antichi la dimensione simbolica della monarchia poteva ancora essere sufficiente, nel senso che esisteva una tale atmosfera di sacralità che il valore della funzione regale era talmente sentito da non risultare intaccato da un’eventuale inadeguatezza dell’uomo che la ricopriva. Ma oggi non è più possibile, e un sovrano dovrebbe assolutamente avere carattere, intelligenza, energia, capacità politica, adeguata preparazione culturale, certezza della sua vocazione di vertice e cognizione precisa delle sue prerogative. Solo così potrebbe reclamare il suo peso, la sua portata di centro di gravità dell’intero sistema politico, di autorità superiore, stabile, non contingente, non revocabile, non derivata, che non si lascia comprare o usurpare; il significato profondo della sua dignità, in nome della quale dovrebbe respingere ogni tentativo di democratizzazione della sua figura, di imborghesimento e di ridicola umanizzazione per inseguire le masse (come invece avviene nelle campagne elettorali delle democrazie); il suo diritto-dovere di partecipare attivamente all’indirizzo di governo; di potere di ultima istanza, unico vero baluardo contro il disfacimento di una nazione. Non si tratta, infatti, di voler riavvolgere il nastro della storia, magari rivendicando il modello della monarchia assoluta (peraltro, sempre presentata in termini troppo sfacciatamente negativi dalla storiografia dominante), ma di non considerare la dottrina costituzionalista come un feticcio astratto e immutabile, perché le costituzioni sono un prodotto storico, e quando ad esempio le cose si mettono male oppure sorgono tali emergenze che la semplice prassi costituzionale non risulta adatta ad affrontarle, ecco che l’intervento di un’autorità suprema, la Corona, si fa ineludibile (saggiamente Benjamin Constant consigliava di vedere nella figura del Re un quarto potere, superiore ai tre classici del legislativo, esecutivo e giudiziario, svolgente una funzione arbitrale e moderatrice), scongiurando così possibili esiti rivoluzionari o dittatoriali. D’altra parte, certe costituzioni, come quella della Germania guglielmina, prevedevano un sistema elettivo democratico in cui gli eletti erano responsabili prima di tutto non di fronte al parlamento, ma al Kaiser; cosa che permise agli Hohenzollern di appoggiare e promuovere una precisa linea politica anche quando questa non godeva del sostegno della maggioranza parlamentare. 

La storia ci mostra che di solito le rivoluzioni vengono dal basso, ma, come dimostra il caso di Bismarck e della monarchia prussiana, possono essere fatte anche dall’alto, cioè a partire dal Re e dagli uomini intorno a lui. È ciò che Evola avrebbe voluto facesse anche Vittorio Emanuele III nel primo dopoguerra, cioè farsi coraggio e intervenire in prima persona, mettersi alla testa delle forze sane della nazione (che già avevano trionfato a Vittorio Veneto), e sconfiggere quelle antinazionali della sovversione – in questo modo non solo non ci sarebbe stato bisogno del fascismo, ma non sarebbe neanche mai nato. Giustamente, Evola denuncia i pericoli delle ideologie nazionaliste (come anche di quelle internazionaliste, ça va sans dire), perché espressione della regressione in senso collettivistico e materialista che ha coinvolto l’Europa negli ultimi due secoli; popolo e nazione, infatti, non sono altro che elementi naturalistici, di livello elementare, per cui non è a loro che bisogna volgere lo sguardo, ma più in alto, cioè al sovrano, “ove ciò che è diffuso in una stirpe si raccoglie, si personalizza, viene ad atto; non alla base, ma al vertice della piramide. E come anticamente potè dirsi: “Dove è l’Imperatore è Roma”, così in un sistema politico virile, personalizzato, anticollettivistico, può ripetersi, che è nel Monarca veramente all’altezza del simbolo sacro da lui incarnato che vivono veramente la Patria e la Nazione: nella Monarchia l’una e l’altra ricevono un superiore crisma. (…) Certo, il sovrano incarna anche la nazione, ne simboleggia l’unità su un piano superiore, stabilendo quasi, con essa, una “unità di destino”. Ma qui ci si trova all’opposto di ogni patriottismo giacobino; non si ha nessuno di quei confusi miti collettivizzanti che parlano al puro demos e che vanno quasi a divinificarlo. Si può dire che la monarchia modera, limita e purifica il semplice nazionalismo; che come essa previene ogni dittatura sostituendovisi con vantaggio, così previene anche ogni eccesso nazionalistico; che essa difende un ordine articolato, gerarchico ed equilibrato. Si sa che i rivolgimenti più calamitosi dei tempi ultimi sono da attribuirsi essenzialmente a nazionalismi scatenati”. Ora, senza entrare in ricostruzioni e valutazioni storiche troppo complesse, da par nostro riteniamo che nel momento in cui si decideva di rompere l’alleanza con la Germania nel corso della Seconda guerra mondiale, Vittorio Emanuele III sarebbe dovuto rimanere a Roma a guidare la resistenza contro la vendetta dei tedeschi. La famiglia e l’erede al trono andavano messi in salvo, ma lui no, sarebbe dovuto rimanere nella capitale e combattere, anche a costo del sacrificio, e non lasciare le forze armate allo sbando: se fosse morto in battaglia, non solo avrebbe garantito il futuro della monarchia nel dopoguerra, ma avrebbe riscattato le colpe sue, della dinastia e dell’intero popolo italiano durante la dittatura; sarebbe stata una catarsi personale e collettiva allo stesso tempo, e probabilmente avremmo evitato il degrado morale di questa squallida repubblica, nata nella vergogna e nei sotterfugi. Comunque lo stesso rapporto fra i concetti di monarchia e di dittatura (intesa in senso lato, quindi anche solo come temporaneo accentramento dei poteri da parte di una personalità forte in casi di grave necessità, come, ad esempio, accadeva nell’istituto della dittatura nell’antica Roma) merita di essere approfondito: sono due cose diverse, anche se non necessariamente in conflitto. 

Evola sottolinea che quest’ultima può essere legittima e avere una funzione salutare quando finalizzata a rafforzare lo Stato e la monarchia, a farle da complemento e da puntello (“Anche in altre costituzioni tradizionali troviamo dualità equivalenti a quella del Rex e del Dux, del Rex e dell’Heretigo o Imperator – nel senso militare –, il primo incarnando il puro, intangibile e sacro principio della sovranità, e il secondo presentandosi come colui che in periodi tempestosi o in vista di compiti particolari, esercitava poteri eccezionali in una posizione esposta, che al Rex, per il carattere sacro della sua funzione, non potevano convenire”), mentre è nociva e illegittima quando s’impone utilizzando i bassi istinti delle masse e mira a farsi indipendente, a sostituirsi alla monarchia stessa (“In Mussolini si consideri la qualità, conservata, di capo di un movimento e di un partito, il suo aspetto di capo-popolo, il suo ambire ad un prestigio che dava quasi sul bonapartistico e sul tribunizio, il risalto che ebbe la persona, l’inclinazione, se non demagogica, almeno abbastanza democratica, di “andare verso il popolo”, di non disdegnare il plauso della piazza, che doveva degnamente ricambiarlo nel 1945”). Non vogliamo essere fraintesi, Evola non era certo antifascista, ma non poteva non notare con disappunto le contraddizioni, le bassezze, i compromessi e gli errori del fascismo, che inevitabilmente si palesavano a chi come lui era volto a più alti principii. Scrive: “Passiamo ora a quell’aspetto caratteristico del fascismo che corrisponde alla concezione del “partito unico”. Il vero Stato – occorre dirlo – non conosce la partitocrazia del regime parlamentaristico democratico, costruita sulla base informe e assurda del suffragio universale. Ma l’idea del partito unico è contraddittoria. Dire “partito” significa dire “parte”, il suo concetto implica molteplicità, per cui il partito unico sarebbe la parte che vuole divenire tutto, in altri termini, una fazione che ha eliminato le altre senza per questo elevarsi ad un piano superiore, appunto per il suo continuare a considerarsi come partito. Il partito fascista nell’Italia di ieri rappresentò una specie di Stato nello Stato, a pregiudizio di un sistema veramente organico e monolitico. Nella fasi di conquista del potere un partito può avere un’importanza vitale come centro di cristallizzazione di un movimento nazionale. Dopo tale fase, il suo sussistere è però un assurdo. Ciò non deve essere pensato come un desiderare una “normalizzazione” nel senso deteriore, con una corrispondente caduta della tensione politica e spirituale. È in altra forma che le forze valide di un partito affermatosi debbono conservarsi e agire: inserendosi nelle gerarchie normali e essenziali dello stesso Stato, occupando le posizioni chiave di esso e costituendo una specie di guardia armata dello Stato, una élite portatrice, in grado eminente, dell’idea. Allora, più che di un “partito”, sarà il caso di parlare di una specie di “Ordine”. È la stessa funzione che, in altri tempi, ebbe la nobiltà, quale classe politica: fino al periodo degli Imperi centro-europei. Come forma assai approssimativa, la Camera dei Lord, quale era stata originariamente concepita. Una “opposizione”, naturalmente, qui non può aver posto in termini di partiti che difendano un altro sistema (qui Evola allude all’irrazionalità di far sedere nel parlamento repubblicano il partito comunista, dichiaratamente sostenitore di un’ideologia nemica dello Stato); può aver posto solo una opposizione “funzionale” come parte del sistema, con la premessa di un fondamentale lealismo. In origine, anche questa fu una sana concezione politica inglese. Il fascismo mantenne invece la concezione del “partito” e si ebbe una specie di duplicazione delle articolazioni statali e politiche (Milizia vicino ad esercito, federali vicino a prefetti, Gran Consiglio vicino a parlamento, etc.) in luogo di una sintesi organica e di una simbiosi. Ciò non può esser raccolto come elemento valido del retaggio del fascismo. Infine la stessa concezione del partito fascista risentì delle origini di esso, per mancanza di un criterio qualitativo: fu quella di un partito di massa. Invece di far apparire l’appartenenza al partito come un difficile privilegio, il regime quasi la impose a ciascuno. Chi è che, ieri, non aveva la tessera? Chi poteva permettersi di non averla? Donde la fatale conseguenza di adesioni esteriori, conformistiche e opportunistiche, con gli effetti che subito si palesarono al momento della crisi. In origine, nel comunismo e nello stesso nazionalsocialismo, la concezione del partito ebbe invece caratteri assai più esclusivisti. Per noi, il punto positivo di riferimento, la controparte positiva del “partito unico” deve essere quella di una specie di Ordine, spina dorsale dello Stato, partecipe, in una certa misura, della pura autorità e della dignità che si raccolgono al vertice dello Stato. A ciò deve condurre l’esigenza del passaggio dalla fase “rivoluzionaria” di un movimento di rinascita nazionale alla fase in cui la stessa energia si manifesterà come forza oggettiva formatrice e differenziatrice dell’elemento umano. Non si può dire che una esigenza del genere lo stesso fascismo non l’abbia enunciata; però poco si andò in là dall’enunciazione, e, in genere, proprio i residui “partitistici” furono di ostacolo per uno sviluppo politico completo e ardito nel senso di una vera Destra”.

Evola, però, non si limita ad auspicare solo un cambio di mentalità collettiva da parte dei nostri contemporanei, ma esorta a elaborare una specifica dottrina dello Stato, di modo che, con una restaurazione monarchica quale punto di partenza (come nel nostro caso italiano, ad esempio), comporti una trasformazione profonda delle istituzioni, tale da renderle funzionali ad una nuova manifestazione di quei valori spirituali di cui il Re deve essere il centro propulsore e il garante. Ciò è possibile se per prima cosa si restituisce alla politica il suo primato, illegittimamente usurpato dall’economia. Scrive Evola: “In fatto di principi bisogna invertire risolutamente le premesse del marxismo, e dire che è l’economia a dover essere subordinata alla politica, e che tutto ciò che detta scuola chiama “sovrastruttura” ha invece un fondamentale valore autonomo e normativo rispetto a quanto riguarda la semplice parte corporea, fisica, di uno Stato; la quale è appunto il dominio proprio all’economia. Non si tratta di negare il significato dell’economia nella vita moderna, con tutte le questioni, d’ordine anche sociale, che vi si riferiscono; si tratta piuttosto di assegnarle il suo giusto valore gerarchico, di toglierle quel che noi chiameremmo il suo plusvalore politico, di limitarla ad un dominio rigorosamente tecnico e funzionale e, ove occorra, di frenarla e di dirigerla affinchè essa non eserciti un’azione illegittima su sfere ad essa sopraordinate, nelle quali l’ultima istanza non deve essere costituita dai valori economici in quanto tali, bensì dalle idee di nazione, di potenza, di prestigio, di vera giustizia, di tradizione etica e spirituale. Il centro naturale di gravità di tale superiore sfera è appunto la monarchia”.

Poi, procedere ad un generale rimodellamento della società in chiave corporativa (si badi che il corporativismo, in senso lato, è un concetto ben più antico del fascismo, come Evola non manca di sottolineare), sia nella prospettiva di raggiungere un’intima solidarietà fra le varie realtà economiche e sociali – avendo come punto di riferimento l’esempio storico delle antiche corporazioni di arti e mestieri, nelle quali non esisteva (o quantomeno, veniva contenuta) l’antitesi fra capitale e lavoro –, sia definendo un sistema di rappresentanza secondo “corpi” specifici (come i tre corpi che esistevano nella Francia di antico regime), e non basato sul suffragio universale, in cui il voto è indistinto, interscambiabile, non vale nulla. Evola propone di costituire una Camera Bassa dove dare rappresentanza, in termini neutri e apolitici, alla sfera economica e produttiva (metaforicamente, il corpo della società), circoscrivendola esclusivamente entro questi limiti; e una Camera Alta, da inquadrare come la sede per le istanze di ordine superiore, politiche e ideali (metaforicamente, la testa della società, il nucleo dello Stato), chiamata a svolgere funzioni normative, regolatrici e moderatrici, il cui esempio paradigmatico andrebbe trovato nella Camera dei Lord inglese. Nel senso che ciò che ad un livello più alto garantisce la Corona in termini di continuità e stabilità di un supremo principio di autorità, sottratto alle contingenze del momento e agli interessi di parte, lo garantirebbe ad un livello più basso, più concreto e politico, questa Camera Alta, i cui componenti dovrebbero essere scelti esclusivamente dal sovrano, di modo che il loro incarico non sia soggetto ciclicamente alle scadenze elettorali (quindi non revocabile dal voto, spesso ballerino, delle realtà gerarchicamente inferiori della società), attestando loro un’indipendenza e un prestigio indiscutibili. Scrive Evola: “La Camera Alta rappresenterebbe l’indispensabile correttivo del fattore di instabilità che sempre si lega ad un sistema elettivo. Dai membri della Camera Alta sarebbe poi da esigersi una speciale fedeltà alla Corona, un lealismo in senso superiore, severo, impersonale: quasi nei termini di un ordine, presidio della stessa idea che s’incarna nello Stato monarchico. Scelti per designazione in base a criteri qualitativi e politici, essi dovrebbero assicurare un massimo di unitarietà e di costanza a tutte le direttive politicamente efficaci, discriminando, equilibrando, rettificando, facendo agire un ordine superiore di interessi e una più alta autorità. La Camera Alta intesa in questi termini rappresenterebbe realmente la diga contro la quale si infrangerebbe ogni moto dal basso in alto, ogni tentativo di scalata dello Stato da parte di un’economia assolutizzatasi e divenuta l’oggetto delle prevaricazioni comuniste ovvero di quelle di un capitalismo cinico, asociale e senza scrupoli. In tal guisa, tutte le posizioni chiave dello Stato si troverebbero in ferme e sicure mani. Non pensiamo in alcun modo ad un sistema di controlli e di intrusioni disturbatrici. Anche la testa non interviene e non disturba in nessun modo l’organismo quando esso funziona bene, quando il suo sistema dei ricambi ha un grado sufficiente di stabilità e quando ciò che risponde alle sue esigenze vitali più elementari sia presente nell’ambiente. Ma dovunque è d’uopo far valere un’esigenza superiore a quella della mera vita fisica, o quando questa accusi disturbi non riparabili in via normale, o, infine, quando si tratti di ottenere da tutte le forze naturali delle prestazioni superiori, l’intervento della testa è necessario. Così l’intervento della Camera Alta sarà necessario quando per affrontare determinati problemi e superare determinate difficoltà occorre un potere di sintesi e di organizzazione che non può ritrovarsi nel dominio delle specializzazioni”.

Certo, è un programma ambiziosissimo, con scarsissime possibilità di realizzazione nella nostra contemporaneità, come lo stesso Evola, senza farsi troppe illusioni, ammetteva con lucidità; tuttavia è evidente che solo sotto l’egida della Monarchia, e non sotto altre insegne, ci si potrebbe validamente opporre alla dilagante degradazione politica e sociale (cosa che gli araldi della decadenza, dentro di loro, sanno benissimo). E qui torniamo a Elisabetta II. Perché, come non abbiamo dato alcun credito alle espressioni di dolore espresse in mondo visione da così tante persone, allo stesso tempo non possiamo dimenticare che è stata esaltata e applaudita su tutti i media per aver accompagnato e non ostacolato – come invece avrebbe dovuto fare – tutte le derive di questa tarda modernità. Ad esempio, Luigi Ippolito ha scritto con compiacimento su ‘Il Corriere della Sera’ (2 giugno 2022): “Sotto il suo regno la Gran Bretagna è passata dall’essere un impero bianco e classista a un posto dove un ministro su quattro nel governo è nero o asiatico e dove nella capitale, Londra, oltre il 40 % della popolazione non è bianca. Una rivoluzione avvenuta senza scosse perché a garantirla c’era lei, costante e imperturbabile”.

Francamente, ci chiediamo cosa ci sia di così bello per una nazione perdere la propria identità etnica e culturale, però è vero, la Regina non ha assolutamente tentato di fermare questi cambiamenti, probabilmente per cercare di conservare il trono alla sua discendenza. Un banale interesse di bottega, si direbbe. Ma non è così che deve agire un sovrano (“Re è colui che nulla teme”). Ricordiamo anche il caso di Baldovino del Belgio, che invece di affrontare a muso duro il parlamento e l’opinione pubblica del suo Paese, anche a costo di perdere la corona, preferì usare una specie di escamotage giuridico per salvare la sua personale coscienza di cattolico, permettendo tuttavia che la legge sull’aborto fosse ugualmente approvata. O ancora Filippo VI di Spagna, che ha talmente calpestato la dignità regale da rinunciare ad una cerimonia di incoronazione, preferendo una laicissima proclamazione a nuovo sovrano da parte dei deputati del parlamento, e giurando solo sulla costituzione. Nulla di più ridicolo... Per non parlare di una monarchia così particolare ed eccezionale qual è il Papato che, con le dimissioni di Benedetto XVI e il discutibile modus operandi del suo successore, sta indiscutibilmente subendo un processo di secolarizzazione. Come osservato dal vaticanista Aldo Maria Valli (‘La Verità’, 9 gennaio 2023): “La rinuncia di Benedetto XVI è sciagurata, perché, sebbene il Codice di diritto canonico la preveda, ritengo che Pietro non debba scendere dalla croce cedendo a una visione funzionalista del Papa e del pontificato. Il Papa non è l’amministratore delegato di una società. Con la rinuncia, il suo ruolo è stato burocratizzato e la figura papale è stata secolarizzata. Inoltre è stata introdotta una dicotomia inaccettabile: non può esistere un Pietro governante e un Pietro orante. Né si può pretendere di continuare a essere Papa smettendo però di fare il Papa. La figura del Papa emerito è un monstrum. L’esperimento del papato emerito è fallito sotto ogni punto di vista. Al di là dell’ipocrisia curiale, dei sorrisi e degli abbracci, sono emerse tutte le differenze tra i due Papi, fino all’incompatibilità, e tra i fedeli si è venuta a creare inevitabilmente una polarizzazione. (...) Vedo, come dicevo, un papato sempre più secolarizzato, ma anche svilito. Il modo in cui Francesco ha parlato delle sue possibili “dimissioni”, quasi come se si trattasse di una chiacchiera da bar, e poi il modo in cui sono state trattate le spoglie mortali di Benedetto XVI, all’insegna quasi della sciatteria, mi hanno provocato forte disagio. Al vertice della Chiesa si è perso il senso della dignità di Pietro e del suo primo dovere: confermare i fratelli nella fede. Oggi Pietro insegue il mondo e gioca a fare il cappellano delle organizzazioni globaliste: nulla che abbia a che fare con la sua vera missione. Di fronte a un simile spettacolo qualcuno ha visto in Benedetto XVI l’ultimo salvagente al quale attaccarsi nel mare in tempesta. Ma anche Benedetto XVI, purtroppo, è espressione di quello spirito del Concilio che ha condotto all’apostasia. Ha cercato, è vero, di difendere la tradizione, ma la sua adesione al Concilio, e l’idea che le aberrazioni siano nate da una lettura distorta del Concilio e non dal Concilio stesso, lo rendono compartecipe del disastro. Mi spiace dirlo, perché sotto molti aspetti ho stimato molto il Ratzinger teologo e il Ratzinger papa, ma questa, per quanto spiacevole, è la realtà”.

L’operato degli ultimi sovrani europei, dunque, si conferma desolante: essi hanno mancato e continuano a mancare. Ma cedere terreno, togliere dall’edificio mattoncino su mattoncino, fare compromessi con questa tarda modernità e i suoi (pseudo)valori, è una scelta assolutamente disastrosa (oltre che disonorevole e vile), che torna palesemente utile alle forze della sovversione – ci riferiamo alla cosiddetta “guerra occulta” di cui parlava Evola, rifacendosi al celebre libro di Malynski e de Poncins. È una scelta che potrà anche sembrare pragmatica, inevitabile per la sopravvivenza di una monarchia; anzi, a volte potrà anche dare l’illusione di poter recuperare consenso, ma alla lunga non sarà così, perché un Re, per quanto svuotato e svilito, sarà sempre un simbolo troppo pericoloso, almeno potenzialmente, per gli agenti della sovversione. Un Re non sarà mai del tutto innocuo, dal loro punto di vista; dovrà necessariamente essere rimosso al momento opportuno. È esattamente ciò che vediamo nell’operazione mediatica che sta sponsorizzando il libro scandalo del principe Harry (il quale appare come una marionetta inconsapevole, abilmente manipolata da altri), cioè un attacco deliberato contro la monarchia, la sua stessa idea, la sua funzione, la sua credibilità, nel momento non certo casuale in cui la figura autorevole di Elisabetta II non c’è più e il nuovo sovrano è quel principe Carlo così poco carismatico. Certo, quella inglese non è l’unica monarchia ancora esistente, ma per mille ragioni è l’unica ad essere diventata un’icona nell’immaginario collettivo di tutto il mondo, quindi la sua eventuale abolizione avrebbe un impatto simbolico enorme, innescando magari la caduta a catena delle altre monarchie superstiti. È questa la risposta che diamo alla domanda su quale sarà il destino della Monarchia nel prossimo futuro: se non ci sarà un cambio di rotta radicale da parte degli attuali sovrani, gli attacchi che dovranno subire saranno di tale entità che non potranno che portare alla loro caduta. Eventuali atti di coraggio da parte loro sarebbero quasi certamente una voce nel deserto (vista la mentalità collettiva dominante), ma potremmo benissimo, parafrasandola, applicare loro la celebre frase che Churchill pronunciò dopo la Conferenza di Monaco: gli ultimi sovrani d’Europa potevano scegliere tra il disonore e il rischio di perdere il trono: hanno scelto il disonore e perderanno il trono. Infatti, se si deve crollare, allora tanto vale farlo in piedi, con fermezza e dignità, da veri sovrani che non abbassano la testa, che tengono la barra dritta, che non si lasciano comprare da nessuno, che non si lasciano corrompere dalle seduzioni della sovversione, che non scappano davanti all’avversario. Come fece Carlo I Stuart, che non volle cedere mai ai suoi nemici, accettando con impassibilità e fierezza la sua condanna a morte: si racconta che quel giorno, il 30 gennaio 1649, facesse così freddo che Carlo chiese di salire sul patibolo con indosso due camicie pesanti, perché non voleva mostrare alcun brivido che potesse dare l’erronea impressione che tremasse per la paura di morire e non per il freddo. Un Re non ha mai paura. E se un popolo giunge a un tale livello di disfacimento e di cecità da non saper più riconoscere l’importanza capitale della monarchia, allora tanto peggio per lui: significa, come, con tono sferzante, ammonisce Evola, “non che un Re non è degno di una nazione, al contrario, che quella nazione non è degna di avere un Re”. Maurras colse nel segno quando disse che decapitando Luigi XVI, la Francia aveva direttamente decapitato se stessa.

Emanuele Pavoni

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