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RECENSIONE :

Francesco Dematté

Pubblicata su:

ARTHOS 22 - 2013

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ADRIANO ROMUALDI

Lettere ad un amico

a cura di Renato Del Ponte.

Edizioni ArÅ·a, Genova 2013,

pagine: 176 - € 20,00.

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Gli epistolari dei grandi filosofi e pensatori hanno un’importanza fondamentale non solo per conoscere aneddoti più o meno rilevanti sulla loro vita privata, ma anche, e soprattutto, per comprendere sia il milieu culturale nel quale essi vivevano e traevano ispirazione per le loro opere, sia la personalità più profonda, che può trasparire solo molto parzialmente nei trattati più marcatamente scientifici.

Ciò vale ancor più per Adriano Romualdi, il “fratello maggiore” di tanti intellettuali della Destra negli anni Settanta: figlio di Pino, vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano e per decenni una delle personalità di maggior spicco del M.S.I., scomparve a soli 33 anni nel 1973, lasciando un vuoto non più colmato nelle esigue file della cultura non conformista. Ora le benemerite Edizioni ArÅ·a di Genova pubblicano, a cura di Renato Del Ponte, una preziosa raccolta di lettere (per la precisione, quarantatrè lettere e una cartolina), inviate da Adriano all’amico genovese Emilio Carbone in un arco di tempo che va dal 20 aprile 1967 al 5 settembre 1971.

Il testo, con una introduzione di Alberto Lombardo e una prefazione dello stesso Del Ponte, è arricchito da numerose appendici contenenti, fra l’altro, alcuni testi rari o inediti di Adriano, e da un’accurata bibliografia.

Copie delle lettere, gli originali essendo andati presumibilmente perduti, che compongono l’epistolario furono consegnate a Renato Del Ponte dal destinatario, Emilio Carbone, poco prima della sua tragica morte, avvenuta nel 1996, ad appena cinquant’anni. La raccolta ha una importanza notevole, in quanto apre uno squarcio di non poco conto sull’ambiente politico e culturale della Destra, in particolare romana e genovese, a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta: nelle numerose lettere compaiono riferimenti e giudizi su personaggi più o meno noti del tempo, come Almirante (“di buona volontà ne ha tanta, ma non ci arriva con il cervello”); Gianfranco De Turris, allora impiegato alle Edizioni Volpe (“molto in gamba e deciso”) e Giano Accame (“farmacista di villaggio”), per non parlare delle durissime espressioni nei confronti di Giovanni Volpe, il quale aveva bloccato la pubblicazione del saggio di Adriano su Nietzsche, uscito successivamente per le Edizioni di AR.

Ma al di là di tali giudizi, a volte francamente ingenerosi – anche se si deve tener nel debito conto il tono colloquiale delle lettere – ciò che può e deve interessare il lettore di oggi è la descrizione di un ambiente, quello della destra missina, ma non solo, del tutto refrattaria, allora come ora, a un serio lavoro politico-culturale. La lucidità di Adriano gli fa comprendere, già più di quarant’anni fa, quale sarebbe stato l’infausto esito del percorso di un partito, il “Movimento Sociale Italiano”, nel quale dilettantismo e improvvisazione dominavano senza requie: “prepariamoci ad assistere – scrive nella prima lettera a Carbone, il 20 aprile del 1967 – all’ultimo atto, che avrà luogo nei prossimi anni: il naufragio del MSI, il naufragio ancor più inglorioso dei varii ‘Ordini Nuovi’ ed ‘Orologi’ che cercheranno di fare un partitino sulle ossa del MSI, con ancor meno fantasia e ancor meno capacità politiche”. Gli è che il giovane Romualdi, nella sua infaticabile attività di uomo di pensiero e di organizzatore culturale, aveva ben compreso quel che era la tara maggiore dell’ambiente di Destra di quegli anni (e degli anni a venire, aggiungiamo noi...): l’assenza, cioè, di una classe dirigente che, libera da orpelli e da ammuffite nostalgie, sapesse fare politica con un bagaglio culturale adeguato, poche linee di vetta, se vogliamo, ma chiare e incrollabili. Adriano si scontra, invece, con un partito nel quale gli “intellettuali” sono visti come dei nemici, dei fastidiosi perditempo che ostacolano uno sterile attivismo fine a sé stesso. Ecco cosa scrive, infatti, nel giugno del fatidico 1968: “anche noi [come i comunisti] sappiamo esattamente quel che vogliamo, anche se il nostro ambiente ci combatte, invece di sostenerci, come invece il PCI fa con i suoi intellettuali. La nostra tragedia è che noi dobbiamo impiegare tutte le nostre energie per riuscire a parlare e scrivere nel nostro stesso ambiente, prima di proiettarci all’esterno”. Queste scarne ed essenziali parole valgono più di mille convegni a spiegarci il perché del disastro attuale, della sostanziale nullificazione della Destra dall’attuale panorama politico italiano.

Ci pongono, tuttavia, anche un’altra fondamentale e inquietante domanda, in quanto Adriano Romualdi non era uno qualunque: non era, cioè, solo l’autore, giovanissimo e già avviato alla carriera accademica, di opere ancor oggi fondamentali, ma pure, come dicevamo, il figlio di Pino, non l’ultimo fra i dirigenti nazionali missini di quegli anni. E allora, ci chiediamo, se lo stesso Adriano, nella posizione che occupava, trovava tanti e tali ostacoli da indurlo quasi allo scoramento, da cui usciva solo con l’azione, non è forse sbagliato ipotizzare che l’intera storia del neofascismo italiano dal dopoguerra a oggi sia stata volontariamente instradata sin dall’inizio su dei binari morti, che dovevano fatalmente portarlo alla vergognosa abiura di Fiuggi e alla successiva evaporazione? Non è forse cervellotico pensare che gli impedimenti frapposti a ogni serio lavoro politico - culturale siano stati creati non solo per insipienza e inettitudine – che pure ci sono stati – ma perché scientemente si voleva impedire l’affermarsi di una classe dirigente seria e attrezzata culturalmente? Il sospetto ci sta tutto.

Al di là di tali considerazioni, comunque, il grande lavoro intellettuale di Adriano non è stato per nulla vano, rimanendo per noi, in questi difficili anni, una vera stella polare, sì che quel che scriveva il 18 gennaio del 1968 vale certamente per lui, ma dovrà, come imperativo categorico, valere anche per noi: “Mi sembra che il nostro destino nel momento presente debba essere quello del seme che deve sparire nella terra e macerarsi per germogliare chissà quando e chissà dove”.

 

Francesco Demattè

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