RECENSIONE :
Giovanni Damiano
Pubblicata su
ilprimatonazionale.it - 04.01.2020
SANDRO CONSOLATO
Urbs Aeterna
Misteri – Figure – Rinascite del Paganesimo
Edizioni Arŷa, Genova 2019.
Pagine 156 - € 20,00
Spesso leggendo libri su Roma antica ci s’imbatte o in una fredda, smorta, analisi “scientifica”, solitamente ad opera di accademici che, tranne poche, felici eccezioni, si volgono al loro oggetto di studio al più mossi da una distaccata curiositas finalizzata alla carriera, unita a “doveroso” conformismo, o in “entusiastiche” ricostruzioni dilettantesche che dicono molto su chi le fa ma, sfortunatamente, davvero poco su Roma e la sua storia. È insomma raro ritrovarsi a leggere libri su Roma capaci di tenere assieme viva partecipazione, libertà intellettuale, rigore di studi ed equilibrio nei giudizi. Ma è proprio questo il caso dell’ultimo lavoro di Sandro Consolato, Urbs Aeterna, appena dato alle stampe dalla casa editrice genovese Arŷa (156pp, 20€).
Urbs Aeterna: una Roma “misteriosa”
L’opera si divide in tre sezioni, rispettivamente dedicate, come d’altronde recita il sottotitolo del libro, ai misteri, alle figure e alle rinascite del paganesimo. La prima parte infatti, salvo lo scritto su Orione, si sofferma su dei misteri molto particolari, che poco hanno a che fare con i più noti culti misterici, trattandosi dei cosiddetti pignora imperii, ovvero le “cose fatali” (così, suggestivamente, le chiama Consolato) deputate al ruolo di “garanti del destino dell’Urbe e del suo Impero” (p. 7), grazie a una vera e propria “protezione magica” (p. 8) appunto esercitata da questi sette “talismani” (l’ago della Madre degli Dei, la quadriga dei Veienti, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Ilione, il Palladio, gli ancili) presi in esame da Consolato uno per uno. E non certo per caso le sorti di Roma si sono storicamente intrecciate con le sorti dei pignora imperii; ha cura di segnalarlo Consolato, ricordando due eventi altamente emblematici: il sacco di Roma da parte dei Galli nel 390 a.e.v., che non si tramutò in catastrofe senza rimedio anche grazie all’azione del sacerdote di Quirino e delle vergini Vestali che, aiutati dal plebeo Lucio Albinio, portarono al sicuro i “tesori sacri dell’Urbe” (p. 30), e il sacco di Alarico del 410 e.v., che al contrario segnò l’inizio della fine proprio perché, a testimoniarlo fu il poeta Rutilio Namaziano, il generale vandalo Stilicone aveva distrutto le armi ‘invisibili’ di Roma.
Nella seconda parte di Urbs Aeterna spiccano i ritratti di Costantino e Virio Nicomaco Flaviano.
Di Costantino, Consolato presenta un ritratto chiaroscurale, com’è giusto che sia, in quanto relativo a un’epoca di transizione (“anfibia”, la definisce l’autore a p. 86), in cui la inoppugnabile svolta filocristiana s’accompagna a una serie di scelte ancora “pagane”, tanto da poter giustamente affermare che “la grande strategia politico-religiosa di Costantino si giocherà a lungo sull’ambiguità della sua religiosità a metà tra Cristo e il Sole Invitto” (p. 76). Un ritratto, insomma, complesso e sfaccettato, che rende conto di un’azione di governo più che trentennale, ricca di svolte, alcune ovviamente cruciali politicamente come quella di Ponte Milvio, ma altre probabilmente decisive in ambito religioso quale quella del 324, con la sconfitta di Licinio. Il senatore Virio Nicomaco Flaviano è invece il rappresentante forse più illustre di quell’ultima “reazione pagana” sconfitta al Frigido nel 394 e.v. dalle truppe del cristianissimo imperatore Teodosio. Grande uomo di lettere (Consolato ne ricorda le opere e le traduzioni), impegnato con Quinto Aurelio Simmaco a salvare il patrimonio culturale della classicità, in ossequio al suo praenomen, Virio Nicomaco Flaviano si darà la morte dopo la sconfitta, memore di altri, e altrettanto virili, esempi che avevano costellato la storia di Roma.
Un nuovo inizio
Altrettanto ben riuscita l’ultima sezione del libro, tutta incentrata su quello che può ben essere definito un nuovo inizio di Roma, vale a dire l’epoca aurea dell’Umanesimo/Rinascimento. Qui, oltre a uno scritto sull’aspetto forse meno conosciuto dell’operato di Giorgio Gemisto Pletone, ovvero il suo progetto di edificare a Mistrà una repubblica di stampo platonico, vanno segnalati un davvero importante ritratto di Leon Battista Alberti e soprattutto il saggio su Giulio Pomponio Leto e l’Accademia romana. A Roma, in pieno Quattrocento, si ritrovano, a volte si sovrappongono e a volte si scontrano, più linee dell’ideologia classicista (p. 135). Quella egemonica dell’umanesimo curiale, quella che coinvolge figure importantissime come il cardinale Bessarione e che lega Roma alla Firenze medicea, quella che potremmo definire repubblicana e che dal tentativo trecentesco di Cola Di Rienzo arriva sino alla fallita congiura antipapale di Stefano Porcari e infine quella ‘incarnatasi’ nell’Accademia romana guidata da Pomponio Leto, l’umanista “il cui grande mistero resta quello se egli volesse effettivamente riportare in auge l’antico paganesimo romano, come si sospettò ai suoi tempi, quando lui e i suoi sodali furono accusati di una congiura antipapale” (pp. 113-114). Da qui prende le mosse Consolato per tratteggiare una delle figure più affascinanti ed insolite del XV secolo. Personalità singolare, dalla “sobrietà ‘catoniana’” e dallo “sconfinato amore per l’Urbe” (p. 115), poco incline ad adulare i potenti e intenzionato a condurre una vita libera, Pomponio Leto fu arrestato nel 1468 insieme agli altri membri dell’Accademia con accuse pesantissime (da cui venne in seguito scagionato), che andavano dall’empietà all’eresia, al ritorno al paganesimo, fino alla congiura contro il governo e alla progettata uccisione del papa. Addirittura Leto fu indicato come l’autore del famigerato (per la sua empietà) De tribus impostoribus, che appunto tacciava d’impostura Mosè, Maometto e Gesù. In ogni caso, Consolato si sofferma non solo sulle vicende del processo ma soprattutto sul reale o meno ‘paganesimo’ di Pomponio Leto e della sua Accademia, con dovizia di argomenti e mantenendo sempre misura nei giudizi. Per chiudere, lasciando al lettore il piacere di addentrarsi nelle pagine di Urbs Aeterna, vogliamo sottolineare solo un ultimo punto, vale a dire qualcosa che ha a che fare col tono generale dell’opera, col pathos con cui è stata scritta, e che fa ricordare un verso di Cristina Campo: “Due mondi – e io vengo dall’altro”.
Giovanni Damiano