RENATO DEL PONTE
Dèi e Miti Italici
Archetipi della sacralità romano-italica.
IV edizione riveduta ed ampliata.
Edizioni Arŷa, Genova 2020.
Pagine 224 - € 25,00
Il 31.01.1986 Sandro Consolato (allora poco più che ventiseienne), di ritorno da un viaggio in Grecia in cui visitò, tra l’altro, il Santuario di Delfi, mi scrisse una lunga lettera in cui affermava di aver ripreso in mano la prima edizione di Dèi e Miti italici, uscita nella seconda metà dell’anno precedente e di averne fatto una nuova, più attenta, lettura, confidandomi le righe che seguono. Ricordo che rimasi molto colpito: l’amico Sandro aveva perfettamente compreso lo spirito di quel mio primo libro e lo aveva interpretato con grande entusiasmo e profondità. Ecco perché (col suo permesso, anche se lo scritto concerne un suo periodo giovanile) ho pensato di riproporre quel suo antico testo com’era, nelle pagine che seguono a mo’ di recensione della quarta edizione del libro, voluta dalle Edizioni Arŷa di Genova. Il lettore tenga conto che in questa nuova quarta edizione, oltre all’appendice sull’Augusto Augurio (presente sin dalla seconda edizione) appare un nuovo capitolo dedicato ad Ercole Italico, mentre sono stati molto arricchiti i paragrafi concernenti l’italica Bona Dea e la misteriosa Sibilla Apenninica, erede dell’Etrusca Northiae della ninfa Begoe.
R.D.P.
Quest’opera celebra davvero le famose Nuptiae Mercurii et Philologiae, il lavoro compiuto è veramente ermeneutico, nel senso di un capire ed interpretare con intelligenza ermeneutica i dati filologici, spargendo su di essi una luce animante, che li trae fuori dal mondo cristallizzato del passato per offrirli, nei loro contenuti in dono a chi, con animo ben disposto, si voglia ad esso accostare per aprirsi ad un’esperienza spirituale che non conosce barriere temporali.
Di fronte a questo libro i nostri guénoniani perdono tutte le penne e dovrebbero, almeno questa volta, andare a cercare qualche brano “giustoˮ del loro nume tutelare, ad es. quello (inserito nel per tanti versi “letaleˮ Introduzione allo studio delle dottrine indù) in cui egli sosteneva che il simbolo (specificatamente alludeva a quelli pagani) può non essere più altro che un “idoloˮ e una “superstizioneˮ, ma solo “fintantoché non si trovi qualcuno la cui comprensione sia capace, parzialmente o integralmente, di restituirgli in modo effettivo quel che esso ha perduto o, per lo meno, quel che contiene solo più allo stato di possibilità latente”.
In fondo, porre un veto all’attualità delle tradizioni pagane, in particolare della tradizione italico-romana è non solo segno di fanatismo, ma forse, soprattutto, indice di superficialità che poi – se ci pensi bene – vuol dire anche mancanza di radici, incapacità o negligenza nel voler “cercareˮ, rifiuto aprioristico o pauroso di interrogare il passato, tutti atteggiamenti che, in chi li coltiva, impediscono di scorgere la verità del simbolismo di Giano e di Virbio: il volto senile e quello giovanile.
Devo dire che questo simbolismo mi ha accompagnato per tutto il libro, non solo nelle pagine ad esso specificamente dedicate. In effetti, mi pare essere il segreto di quest’opera. Dall’inizio alla fine di essa, infatti, si respira continuamente l’idea di un perenne rinnovellarsi del sacro, nelle specifiche forme italico-romane, entro i confini della nostra Patria.
L’“assenzaˮ di miti in Italia e a Roma si trasforma in presenza continua, sempre riattualizzantesi, degli Dèi. “Assenzaˮ scritto tra virgolette perché vi si dimostra che i miti ci sono, a Roma e in Italia, ma sono quei miti ingenui che ci fanno intendere (cioè, allo stesso tempo, comprendere e “tendere versoˮ) la sacralità romano-italica: sacertà inestinguibile, inabolibile.
Giano, archetipo divino della regalità sacra, è il primo Dìo, o il primo simbolo e mito, che si offre alla nostra meditazione: Giano, un vecchio che diventa fanciullo. Con esso, restituito alla sua purità (ci sarebbe da chiedersi se alzare le spalle di fronte agli “studi eruditiˮ e certa fedeltà agli “autori canoniciˮ non sia spesso interessata…), abbiamo la possibilità di rivendicare a Roma e all’idea di regalità sacra quell’unicità e quel primato contro il quale a nulla varrà, neanche in sede libresca, l’agitar doppie chiavi, ma nemmeno certi compassi massonici. Quello che Giano ci dice è che la regalità sacra non solo sta all’origine di Roma come modello di primordialità e integralità tradizionale, ma che questa stessa regalità iniziatica non si allontana da Roma: Giano è una regalità che non precede Roma come sua radice temporale passata, è invece la sua radice celeste, perciò atemporale, eterna. Giano non ha mai cessato di essere presente, tiene sempre strette nelle sue mani e la chiave e lo scettro e sempre può aprir le sue porte, sempre può iniziare al suo mondo entro la terra di cui è il re primordiale. Questo “vecchioˮ per ridiventare “fanciulloˮ non ha bisogno di continuità protocollari; esso sta, risiede nell’ordine delle cause, quindi sarebbe del tutto errato voler dare una risposta al suo mistero, dal punto di vista realizzativo, ponendosi nella scia degli effetti svolgentisi nel tempo. Il che non vuol dire, ovviamente, che egli non abbia assicurato anche la continuità temporale, occulta, di quella regalità sacra di cui è la fonte.
Con Saturno poi l’Autore ci libera del peso della tradizione primordiale e dell’“ortodossiaˮ ad essa, o perlomeno, da un certo modo di interpretare la cosa. Di là dall’asse guénoniano India-Islam, storicamente innaturale, come anche tanti eventi perfino tragici dimostrano, ci viene proposto l’asse Roma-India sulla scia del Tilak, col che si potrebbe ritorcere contro Guénon la sua stessa considerazione che questo brahamano, essendo un indù ortodosso, era pressoché ignorato dagli Occidentali. Ma quel che è di grande importanza è l’aver mostrato chiaramente che in Roma, per filiazione diretta, ci sono i titoli di una funzione “polareˮ, che le conferiscono il carattere di centro sacro per eccellenza, garanzia di qualsiasi vera, integrale restaurazione tradizionale.
E se questo significa anzitutto manifestazione esteriore della regalità sacra, dell’unità principiale dei due poteri, sacerdotale e regale, se vuol dire Imperium, allora nessun altro centro sacro può legittimamente aspirare ad essere l’origine di questo Opus Magnum.
Ciò perché – e con ciò veniamo alla “Signora delle Selveˮ – l’Italia, il Lazio, Roma, sono la terra ove la “Donna Magicaˮ conferisce all’eroe ermetico, oltre che la “Sapienzaˮ e la “Forzaˮ, anche la regalità divina. Il Veltro dantesco è sulla scia di Enea; un’«ininterrotta serie di sovrani sacrali» ci promette che il ritorno dell’età aurea avrà in Roma il suo centro di irradiazione.
Tutto ciò mi riporta ad un tema da me già discusso con l’Autore: quello dell’occultamento del divino. Tutte le realtà divine da lui rischiarate con “luce filtrante dall’alto” testimonierebbero che non esiste un’eclissi del Divino, un suo occultamento. Tuttavia, io sono costretto a ripetere: quelle realtà sono occulte perché noi ci occultiamo ad esse, perché noi non siamo degni di esse. L’occultamento del Divino esiste finché noi non porremo in noi stessi le basi per farlo cessare. Quest’opera, in fondo, non è che la testimonianza di una mirabile e nobile esperienza interiore di purificazione volta al ripristino dell’ordine normale delle cose.
Giano è sempre pronto a diventare, da vecchio, giovane, ma solo se, come ha giustamente detto l’Autore commentando le XII Tavole, l’animo dell’aspirante iniziato “non è puro al pari di quello di un fanciullo”. Ed è forse questo il requisito che, in generale, manca o non viene compreso e su cui dovrebbero meditare tanti, abbandonando certe fantasie su quel che vorrebbe dire “essere guerrieriˮ, le quali testimoniano, in fondo, una certa incapacità di capire l’“interiorità guerrieraˮ di uno stesso Evola, ad es. Non basta, infatti dirsi a parole “guerrieriˮ o pensare di passare ai fatti con qualche “azioneˮ per trovarsi di fronte Marte in veste di picchio o di lupo: solo chi è giovane e guerriero al modo dell’antica juventus italica potrà avere quella speranza, quella di chi non confonde la Virtus con la Hybris.
Affermo questo pensando all’altro bel capitolo dedicato alle “primavere di Marteˮ, in cui rivive il palpito, antico e sacrale di chi si senta “nella mente e nel sangue parte integrante di questa terra e di questo suolo” e, per viverne i contenuti profondi, non necessita di macchine del tempo, né dirette in avanti, né dirette all’indietro.
Concludendo, devo affermare che, leggendo questo libro, ho più volte pensato a certe poesie esoteriche di Tommaso Campanella, il frate calabrese mio conterraneo che rivendicava le superiorità, esoteriche anzitutto, della nostra sulle altre terre, data proprio dalla presenza mitica in essa di Giano e Saturno. Tra l’altro, egli opponeva alle “favole grecheˮ non solo i miti squisitamente italici, ma anche la realtà storica, quindi militare ed imperiale di Roma.