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RECENSIONE :

Federico Gizzi

Pubblicata su:

ARTHOS 30 - 2021

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SANDRO CONSOLATO

Leggere la Tradizione

Edizioni Arŷa, Genova 2018.

Pagine 172 - € 20,00.

Abituati alla analisi accurata, ma racchiusa e nascosta dalla rapidità di sintesi, dei libri di Sandro Consolato, non ci siamo resi conto subito della corposità di questo bel titolo dell’Autore, Leggere la Tradizione. Raccolta miscellanea dei suoi scritti apparsi nell’arco di circa un ventennio e più, su una quantità di riviste da lui dirette o di cui è stato collaboratore, o anche di riscritture di conferenze precedentemente svolte, un libro del genere presenta un rischio potenziale, quello della disorganicità, poiché a prima vista gli argomenti trattati non potrebbero essere più diversi. Ma chi conosce il Nostro sa che egli segue sempre una trama non vogliamo dire segreta, ma inavvertita ai più. 

La materia è divisa in otto capitoli che racchiudono ognuno un piccolo numero di scritti. Otto, numero di compiutezza e di resurrezione, numero circolare, ed infatti il lettore avvertito potrà notare che il primo capitolo e l’ultimo trattano entrambi di poesia, toccandosi tra loro. Il primo riguarda un autore molto amato da Consolato, Giuseppe Conte, autore compatto, completo, robusto, abituato ad affrontare in maniera sinfonica i suoi argomenti, mentre l’ultimo appare più sfaldato e breve, e parla di autori che hanno conosciuto dolorosamente l’impossibilità del Grande Stile al giorno d’oggi, ovvero la consapevolezza di vivere in un mondo di rovine e frammenti. In un certo senso Conte è un Inattuale perché opera secondo modalità estinte oggigiorno, mentre, nelle loro infinite diversità e posizioni, un Pound, un Kerouac, o anche un metapoeta e attivista culturale odierno, come l’amico Sandro Giovannini, sono dolorosamente contemporanei nella consapevolezza di vivere in un mondo di macerie (Pound), di doverlo eludere (Kerouac), di volerne ricostruire un altro artigianalmente, a mo’ di un Opus Sectile (Giovannini). In questo senso si percepisce l’infinita ammirazione di Consolato per la postura “foscoliana” di Conte, ma anche il percorso spiraliforme che capitolo dopo capitolo lo conduce alla melancolia post storica degli ultimi scritti. 

È opportuno qui aggiungere una clavis interpretativa degli scritti di Consolato, ricordando la sua opera poetica, che emerse agli inizi della sua attività di autore, producendo un libro “segreto” come Nominibus Lusi (1996). Anche molti degli estimatori del Nostro non conoscono questo lato della sua opera, che appare all’inizio del suo percorso, e che a nostro avviso non è scomparso, ma si è ad un certo punto fatto carsico, irrorando segretamente la sua opera saggistica e pubblicistica. La melancolia, al fondo quasi scanzonata, del vivere in un mondo dove sempre più diradata si manifesta quell’esperienza estetica che accenna, per poi ritrarsi, ad una dimensione sapienziale, e che ci parla di una “decadenza” che forse è tale dall’inizio dei tempi: ebbene vorremmo suggerire di cercare in questa peculiare melancolia, in questa vena sottile, una possibile chiave di lettura, “esotericamente sorridente”, per così dire, di TUTTA l’opera di Sandro Consolato, che colloca il suo sentire quindi, tra l’ammirazione per la modalità eroica e civile del tentativo di agire poeticamente nel mondo, presente nel primo capitolo, e il suggerimento della concreta possibilità, realistica ed evanescente assieme, di uscita dal mondo e di passaggio al bosco, che contraddistingue il capitolo finale. 

“Nel Mondo ma non del Mondo”, antico precetto di modus operandi del tempo cristiano che il gentile (nei due sensi) Sandro ha fatto proprio, con un retrogusto di pathos, di dharmico coinvolgimento, di cui si sa a priori che verrà deluso, e che potrebbe essere la cifra personale dell’autore: un gentile, ribadiamo, moderno Virgilio, che ci guida per i capitoli interni del suo libro, attraverso regioni della storia, dell’arte, della letteratura, del pensiero, tutte sfaccettature di quella Tradizione che Consolato ha sempre amato e studiato secondo la modalità di un’intelligenza critica e quindi non “tradizionalista”.

Studiare la Tradizione in questo modo significa inevitabilmente cadere nel peccato di eresia verso i Guardiani del Verbo tradizionale, ovvero constatare che la Tradizione, qui, ora, forse sempre, non esiste o non è mai esistita, il suo compatto cristallo si è frantumato all’inizio dei tempi, o forse ancora meglio, prima che i tempi iniziassero ad essere.

Consolato non ama la Tradizione, o meglio la pretesa che hanno avuto, nei tempi presenti, uomini caduchi e provvisori e parziali come tutti noi, di indicare dove essa sia. Semmai ama TUTTE le Tradizioni, incomplete e imperfette quindi, in quanto plurali, modalità in cui gli uomini e le donne hanno fatto propria la dimensione del trascendente e ancora più del divino presente nell’immanenza del qui e ora di questo mondo. E in questo si mostra attento lettore di un autore che ha studiato e cercato di comprendere e rispettato, ma che non ha mai veramente amato, come Guénon, il quale si è sempre tenuto alla larga da discepoli, seguaci, tradizionalisti e tradizionalismi vari. Chi ha veramente amato, seppure di un amore che non è MAI stato acritico, e privo della luce discriminante dell’intelligenza, lo sappiamo, è stato Evola. E però, la facile equazione Evola = Tradizione Romana, in questo libro è di molto relativizzata. Ai “Nostri Antichi”, agli Avi, Consolato dedica solo uno degli otto capitoli del libro, il quinto, sia pure il più cospicuo. Si capisce come la Romanità, cui Consolato ha dedicato una vita di studi, non sia qui l’egemonikon, ma venga letta in una prospettiva che la relativizza, senza toglierle nulla peraltro. Il nostro Virgilio, ripeto, qui accenna e indica in un altro modo, in una prospettiva a luce radente che mostra altri aspetti di civiltà, luoghi ed uomini tradizionali, in generale invece o demoliti ottusamente o altrettanto ottusamente venerati come idoli, idoli da museo delle cere troppo spesso.

La seduzione della Sirena Partenope, e quindi la sensibilità ai temi della Geografia Sacra, spinta fino al Bhutan (capitolo II); il Simbolismo Templare, del Tempio esteriore e del Tempio del Cuore della poesia dantesca (capitolo III); la narrazione del Mistero e di una realtà altra, che traspare anche da fatti di cronaca, da esistenze umbratili, di cui è spesso compito dello scrittore dare forma (capitolo IV); il prendere sul serio la filosofia cosiddetta profana, su cui troppi “esoteristi” dall’incerta penna e incerto sapere sghignazzano, senza sapere di cosa parlano, e che invece ha sempre avuto mille addentellati e mille nuances con cui si è sviluppata per confermare o negare i saperi tradizionali: e qui Consolato intraprende un serrato dialogo a distanza, che non esclude anche la critica severa, con un autore quale Giandomenico Casalino, che in un Opus di difforme e altalenante livello, ha comunque cercato di operare una saldatura tra filosofia profana e sapere tradizionale (capitolo V); lo sguardo delicato, e direi colmo di affettività, con cui si china su talune vicende della nostra storia nazionale, collaterali rispetto a un altro grande tema di Consolato, il Risorgimento Italiano come parte della Aurea Catena della Storia Sacra d’Italia: e quindi il suo riaffermare con brevi cenni come la sedicente “antitradizione” della nostra costruzione statuale sia molto più tradizionale delle bandiere sotto cui troppi tradizionalisti della lettera ma non dello spirito si vanno radunando da un secolo quasi (mi si lasci qui accennare a uno dei tratti umani e politici più pregevoli di Consolato, la sua sensibilità per l’istituto monarchico, lascito della sua gioventù “anarco-monarchica”) (capitolo VII). Questi, svolti cursoriamente, sono gli altri temi trattati da Consolato, incastonati tra l’alfa e l’omega dei temi poetici.

Possiamo cercare una ulteriore chiave di lettura? Forse una è più pregnante di altre, e risulta dalla dedica del libro a quel Grand Seigneur dell’esoterismo e degli studi esoterici italiani che fu Alberto Cesare Ambesi, di cui tratta peraltro anche il primo contributo del capitolo terzo. Figura elegante ed umbratile, che proprio per queste ragioni non ha mai avuto nel panorama culturale italiano il ruolo di spicco che avrebbe meritato, i suoi orientamenti spirituali ed esoterici, che gravitavano attorno ad una Libera Muratoria di stampo nordeuropeo, cavalleresca e templare, illuminata e non illuminista, rosacruciana nei suoi riferimenti ad un Oriente dello spirito, della storia e della geografia, con le radici fisse nella Persia preislamica e zoroastriana: appare evidente come questo Gentiluomo abitasse una equazione per-sonale molto diversa da quella dell’Autore. Ma abbiamo l’impressione che per Consolato abbia rappresentato qualcosa di più e di diverso, un esempio metodologico di come rapportarsi alle “tradizioni”, di come leggerle e collegarle tra loro in maniera analogica, di come pensare il rapporto tra storia e metastoria. Ma peraltro anche un esempio di come esercitare in senso reale ed effettivo lo sguardo verso le tradizioni altre, con intelligenza del cuore nel comprenderle pur rimanendo saldo nella propria posizione; di come esercitare la virtù della tolleranza in maniera effettiva mentre troppi si limitano a riempirsene la bocca; di come riuscire a trovare qualcosa di positivo anche nei punti di vista talvolta radicalmente altri se non avversi; di come, in conclusione, esercitare un certo stile elegante della scrittura che era proprio ad Ambesi quanto lo è a Consolato, ricordandosi, come diceva René Daumal, che “lo stile è l’impronta di ciò che si è su ciò che si fa”.

Federico Gizzi

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