TITO LIVIO PATAVINO
Hic Manemibus Optime!
Come Roma sopravvisse rimanendo fedele al suo Genio.
(a cura di Renato Del Ponte)
Edizioni Arŷa, Genova 2015.
Pagine 96 - € 18,00.
Il curatore traccia un’accurata esegesi del testo liviano, scegliendo nella narrazione dello storico un momento estremamente significativo per chi voglia accostarsi alla dimensione sacrale di Roma, ai suoi culti e ai suoi riti: nullus enim locus sine Genio (Servio, ad Georg. I, 302). La traduzione riportata a confronto del testo, è stata corredata da un preciso e paziente lavoro di riferimento storico-filologico.
In un momento in cui l’Urbs, distrutta dall’incursione dei Galli, rischia di perdere la propria identità, qualora venga presa la decisione caldeggiata dalla plebe, di un permanente trasferimento a Veio, da poco conquistata, ricca e capace di offrire strutture ancora indenni alla vita sociale dei Romani in fuga, Livio pone sulla bocca di Furio Camillo il discorso decisivo. Chiaro che in questo eroe (ri)fondatore del-l’Urbe, secondo Pater Patriae dopo Romolo, si rispecchia Augusto, terzo Pater Patriae. Divenuto imperatore della città caput mundi, dis faventibus, egli si propone il ripristino della semplicità di culti arcaici. Sono pagine quelle di Livio che fissano il destino di Roma repubblicana, spostano l’attenzione sul colle sacro del Campidoglio, luogo ai tempi di Camillo di forte resistenza all’assalto dei Galli. Consacrano il ricordo dell’opposizione, in origine, ad ogni spostamento delle due divinità Terminus e Juventas durante la costruzione del Grande Tempio ivi edificato e dedicato a Giove Ottimo Massimo. Terminus (concetto giuridico-sacrale di confine) e Juventas (simbolo della gioventù guerriera romana), divinità in perfetta sincronia col dìo originario del Lazio, Giano, nella sua eternità di rinnovamento, lui arcaico e pur sempre giovane.
È un omen che titola la ricerca di Del Ponte: Hic manebimus optime!, letteralmente: “Qui rimarremo ottimamente!”. Risposta data alla decisione da prendere, attraverso un personaggio del tutto all’oscuro di quanto Camillo sta caldeggiando; le parole risuonano come espressione di una volontà divina, mascherata, ma pur forte. È un centurione che, estraneo al contesto, semplicemente comunica ai suoi soldati di accamparsi nei pressi del Comizio. Più sottilmente e sacralmente, esse assumono un significato decisivo per tutto il destino di Roma. L’omen crea il punto fermo, fondamentale di un’identità che non sarà più tradita. Bene Del Ponte intende: “Qui rimarremo perché qui è stato segnato il nostro destino, qui è nata la nostra identità”. Consapevolezza così forte da far dire a Rutilio Namaziano, allontanandosi da Roma per ritornare nella sua Gallia nativa dopo il sacco di Alarico: “Ciò che rovina gli altri regni Ti [riferito a Roma] rinvigorisce: è la legge della rinascita, essere fortificati dai mali” (De reditu, vv. 139-140).
Francesco Sini in un discorso riportato tra le varie Appendici del libro curato da Del Ponte in occasione del XXVII Seminario Internazionale di Studi Storici ‟Da Roma alla Terza Romaˮ tenutosi in Campidoglio nel Natale di Roma 2007, è stato estremamente chiaro sull’episodio liviano di Camillo e dell’omen: “Il testo di Livio è molto esplicito: con buone argomentazioni, tutte svolte sul filo della teologia e dello ius sacrum, Camillo sostiene che il popolo romano sarebbe perito, qualora avesse abbandonato il sito dell’Urbs Roma, dove peraltro nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus [ci limitiamo a far notare che Livio afferma con più potenza, usando la doppia negazione (Nullus…non), forma retorica affermativa nella lingua latina]. Cioè l’unico luogo che aveva determinato (al momento degli initia urbis) e poteva assicurare (nel tempo) l’identità religiosa e giuridica del popolo romano, in quanto fondato da Romolo con atto inaugurale secondo il volere degli Dèi [urbem auspicato inauguratoque conditam habemus]. Tuttavia questo imprescindibile legame tra gli Dèi e la Urbs Roma non deve far dimenticare che la religione politeista romana fu sempre caratterizzata da forti tensioni urbanistiche e da costanti “apertureˮ culturali verso l’esterno”.
Renato Del Ponte in questo libro riesce anche a darci, molto più fedelmente del recente film Il primo Re di Matteo Rovere, una ricostruzione degli scenari, luoghi sin dall’origine e dalla susseguente fondazione abitati dal potente e misterioso Genuis Loci Urbis: “L’area della Tuscia, così come quella della futura Roma, è di formazione vulcanica e il suolo è ricoperto da una spessa crosta di origine lavica, quale è appunto il tufo. Nel tempo corsi d’acqua vi scavarono valli e gole profonde, le forre. Tutto ciò rimanda alle forze ctonie della natura, che ci riportano all’interno, alle radici primigenie della terra. È questa, un’indicazione preziosa per comprendere le “vesti” (se non il nome) del Genius Urbis Romae…” (pp. 9-10).
Due rupi di tufo sono il Campidoglio e il Palatino. È il Campidoglio, dopo l’assalto gallico, ad assurgere a fondamento della vita repubblicana. Esso ritorna ad esprimere con il grande Michelangelo, neoplatonico, il sentimento dell’antico Genius Urbis. Il colle “rinvia a quel Caput Humanum che proprio lì fu trovato nel costruire le fondamenta del tempio di Giove Ottimo Massimo ( … ). La pavimentazione a schema stellare della piazza genera una netta spinta centrifuga che contrasta con le facciate dei palazzi che vi convergono. Essa riporta al centro dell’universo [concezione platonica di Michelangelo] e riconduce al fulcro delle partenze e dei ritorni dei grandi generali trionfatori sino al colossale tempio di Giove Ottimo Massimo” (p. 10).