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RECENSIONE :

Stefano Bianchi

Pubblicata su:

ARTHOS 29 - 2020

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RENATO DEL PONTE 

La Religione dei Romani

Edizioni Arŷa, Genova, 2017. 

Pagine 288 - € 28,00.

Come osservò l’Autore stesso nella premessa alla prima edizione del lavoro, senza lo straordinario rapporto con il mondo divino che caratterizzò l’agire del civis Romanus in ogni ambito della vita,”non si potrebbero concepire né la stessa esistenza fisica di Roma, né il millenario ciclo della sua civiltà”. Del resto, passando in rassegna le passate e presenti fortune di Roma, Marco Tullio Cicerone, si diceva convinto “che Romolo e Numa Pompilio gettarono le fondamenta della nostra città il primo ricorrendo agli auspici ed il secondo creando il rituale religioso, né essa avrebbe potuto essere così grande senza un particolare favore degli dèi immortali”.  Nello stesso De Natura Deorum, l’Arpinate rimarcava poco prima, come “lo stato prosperò quando il potere fu in mano a persone ligie ai doveri religiosi. E se vogliamo paragonare la nostra storia con quella dei popoli stranieri troveremo che in tutto il resto fummo pari ad essi o anche inferiori, ma in fatto di religiosità, cioè di culto divino, fummo loro di gran lunga superiori”.

Questa convinzione, diffusissima nella letteratura latina di ogni epoca, giunse sino al IV sec. d.C., se un Quinto Aurelio Simmaco poté affermare come (qui è Roma stessa a parlare) “questo culto portò il mondo sotto il mio dominio, questi riti hanno respinto Annibale dalle mie mura e i Senoni dal Campidoglio”. Per quanto i moderni interpreti si siano spesso impegnati nella ricerca dei fattori politico-costituzionali, etici o morali, sociali ed economici o strategico-militari che resero pressoché invincibile l’Urbe, impilando saggi su saggi (più che legittimamente, sia ben chiaro), per i nostri avi la spiegazione delle fortune di Roma risultava semplice: esse derivavano da un corretto esercizio del rapporto con il mondo divino e dalla protezione accordata all’Urbe dai numina (cioè le forze sovraumane o potenze attive delle divinità) che la vegliavano. Una percezione che era peraltro diffusa tra le popolazioni dell’epoca: l’atteggiamento superiormente orientato in ogni agire del Romano, destava stupore, quasi incomprensione, per la sua dimensione. Archidamo, légato della popolazione ellenica degli Etoli, alleata di Roma nel corso della prima guerra macedonica, si mostrava spazientito dall’atteggiamento del console Quinzio Flaminino, il quale, a suo parere, invece di combattere risolutamente il nemico, passava la maggior parte del suo tempo a sacrificare, prendere auspici e pronunciare voti agli Dèi.

Al tema è dunque dedicata la monografia di Renato Del Ponte. L’Autore non ha certo bisogno di presentazioni presso il pubblico interessato allo studio della religiosità romano-italica precristiana in particolare e del tradizionalismo evoliano più in generale. Qui sarà sufficiente ricordare come Renato Del Ponte abbia dato alle stampe originalissimi contributi nel campo della ricerca sulle diverse manifestazioni del sacro in terra italica, che gli hanno valso anche il riconoscimento della comunità accademica. Per tutti: “Dèi e Miti italici” (Genova, 1987: ora giunto alla quarta edizione accresciuta e riveduta, fresca di stampa per le Edizione Arŷa di Genova, 2020), le crestomazie “La città degli Dei” (ECIG, Genova 2003), “Favete linguis!” (Edizioni Arŷa, Genova 2010) e, per l’appunto, “La Religione dei Romani”, apparso per i tipi di Rusconi nella sua prima edizione nel lontano 1992. 

A distanza di venticinque anni dall’uscita, la necessità di una nuova edizione si è resa indispensabile per due motivi. In primis, il lavoro conobbe uno straordinario successo di pubblico che non solo valse a Renato Del Ponte l’ambito riconoscimento del Premio Letterario Internazionale “Isola d’Elba Raffaello Brignetti”, ma esso andò rapidamente esaurito. Ma v’è di più. Nel corso degli anni, non solo le scoperte archeologiche condotte da Filippo Coarelli e, ancor più, da Andrea Carandini e i suoi collaboratori, hanno pressoché integralmente confermato i resoconti tradizionali sulle origini di Roma, già ampiamente accettati da Renato Del Ponte ante inventam ‒ in ciò dimostrando una lungimiranza e capacità intuitiva non comuni, spazzando via viete formulette sull’inattendibilità delle fonti che a lungo hanno dominato il campo degli studi sulla materia, in nome di una cieca ortodossia materialista e razionalista, figlia di un’epoca ideologica ormai lontana ‒ ma il lavoro di approfondimento e indagine da parte dell’Autore intorno a diverse figure numiniche, come quelle di Venere Ericina o Vediove (qui esplorate a tutto tondo per la prima volta, con risultati originali e per certi aspetti, sorprendenti) ha permesso il completamento di un percorso interiore di studi che si dipana lungo oltre quaranta anni di ricerca. 

Nella nuova edizione riveduta, corretta e ampliata, non mancano infatti le novità. Oltre a quelle accennate, un ulteriore approfondimento relativo al complesso tema degli indigitamenta, vale a dire quella moltitudine di divinità, ciascuna da invocarsi con il suo preciso nome e funzione tramite appropriati incantamenta (formule incantatorie), che governavano alla vita dell’uomo romano sin dalla nascita, accompagnandone, come benevole sentinelle, ogni seguente passo nella vita terrena, dall’entrata nel mondo degli adulti sino all’exitus. Una “sacralizzazione di ogni manifestazione della vita”, nota l’A., che evidenzia una compenetrazione tra mondo del divino e le umane vicissitudini in ogni loro singolo aspetto, quasi stupefacente nella sua magnitudo. Approfondimento tanto più utile in quanto Renato Del Ponte svela qui, per la prima volta, non solo le singole funzioni degli Dèi degli indigitamenta, ma la particolare gestualità delle dita (da cui forse lo stesso etimo) che doveva unirsi alla pronuncia di ciascuna litania, assimilabile ai mudra, ossia i gesti rituali che s’accompagnano alla dizione dei mantra nel mondo tantrico himalaiano. È in questa prima parte dell’opera che ritroviamo le intuizioni più felici: Lari, Penati, Indigeti e Mani, le divinità domestiche oggetto del culto familiare (ma, in seguito, anche pubblico, come ci ricorda l’A.) trovano una precisa definizione e sistemazione, restituendo un quadro preciso e appassionante anche di contro a schemi e idee che oggidì possiamo considerare superate o addirittura frutto di errori interpretativi anche da parte di giganti della ricerca storica come Georges Dumézil o George Wissowa. 

Il lettore che si approcci al tema, digiuno da ogni conoscenza, non potrà che provare meraviglia e interesse per un modo di intendere non solo il sacro ma la vita stessa (distinzione, peraltro difficile da operare nella prisca romanità) dominato dall’idea che ogni aspetto dell’esistenza risultava dominato da un assillo ininterrotto di operare in accordo con le forze numiniche e di procurarsi il loro ausilio, senza per questo scadere nel primitivismo o in forme superstiziose.

Come ovvio, l’esame dell’apparatus sacrorum romano, non si ferma a ciò solo. Nella parte centrale e, certo, più densa del suo scritto, l’A. analizza i principali Dèi in relazione ai sacerdozi della res publica romana. A partire dal Rex sacrorum e Giano, il divino “iniziatore” per eccellenza ‒ che apre ogni cosa e non solo il tempo sacro organizzato secondo il kalendarium, passando per Giove Ottimo Massimo, colui che presiede ai sacra (i riti) e agli auspicia (i segni della sua volontà) del populus Romanus Quirites e che vengono resi noti (non rivelati, si badi bene) alla civitas per mezzo dei suoi interpreti siano essi, a seconda delle epoche, reges, magistrati e principi insieme all’augusto consesso dei patres et conscripti, così come i gruppi sacerdotali dei Pontefici, Flamini, Auguri e Feziali, Epuloni e Viri sacris faciundis. Sono proprio queste figure cui Renato Del Ponte pone speciale attenzione  – giungendo così sino a Marte e alle altre presenze divine che ressero i destini dell’Urbe. Sì che il lettore attento, ancora una volta, resterà stupito nel constatare come in nessuna altra forma religiosa conosciuta, se non, per molti versi, quella vedica o nello shintō nipponico (il quale, come noto, presenta singolari analogie con il cultus deum latino), si sia realizzata una così precisa e alta forma di specializzazione e distinzione funzionale tra le figure sacerdotali e magistratuali (spesso inscindibili tra loro) e una più perfetta simbiosi tra umano e divino.

Si tratta di un viaggio penetrante, condotto con assoluta padronanza delle fonti e un rigore filologico estremo (aspetti troppo spesso negletti negli studi tradizionali), ma colto con l’ottica del metodo tradizionale con estrema semplicità, attraverso una visuale originale e “originaria”, rendendo accessibile anche ai non specialisti l’intera materia. 

A differenza di molti manuali e ricerche sulla Romana religio, infatti, l’A. non è interessato tanto a esplorare il savoir faire rituale romano o l’ortoprassi cultuale (per quanto non manchino i cenni al tema), né a porsi all’interno della dialettica degli studi religiosi accademici ‒ oggidì dominata dal dibattito tra l’idea della polis religio cara a John Scheid (posizione, peraltro condivisibile sotto molti aspetti e non priva di intuizioni assai felici) e quella di Jörg Rüpke, che privilegia, invece, l’aspetto dinamico e universalistico di una religione, come quella dell’epoca del principato, che sarebbe stata aperta alle influenze del mondo mediterraneo, sino a divenire altra rispetto alla forma prisca quanto a cogliere e intendere il savoir penser del civis romanus, il suo modo di essere e porsi, anzitutto interiore, nei confronti dell’esperienza del divino in ogni campo dell’umana attività, dall’uso del cibo sacro, al mistico esercizio del bellum, cui Renato Del Ponte dedica la parte terza del lavoro. 

Già questo solo, segnerebbe una rottura con il metodo di ricerca privilegiato in ambito teorico. Ma non basta. Nella sezione finale dedicata all’evoluzione (ma come avverte l’A., meglio sarebbe parlare di adattamento) della religio romana nell’epoca dell’espansionismo imperiale, innanzi al diffondersi dei culti misterici orientali, dell’insegnamento neo-platonico e del monoteismo cristiano, emerge l’idea che al di là di singole adesioni o cedimenti, il rigoroso conservatorismo insito nel cultus deum prisco, abbia, di fatto, reso immutato il quadro, permettendo così di affermare come, ancora nel IV sec., il culto tradizionale civico fosse di gran lunga il più popolare e seguito.

Una figura come quella austera e maestosa a un tempo di Quinto Aurelio Simmaco, uomo politico, letterato eccelso e pontefice, testimonia nei suo stessi scritti (ed epistolario) che l’immutabile e retta via agli Dèi era viva e vegeta e come l’aquila romana non potesse essere accecata dai pallidi soli dell’Oriente. Ci vollero i folli provvedimenti legislativi di Teodosio, emessi in nome di una pretesa verità unica e assoluta, voluti dalla gerarchia ecclesiastica seguace del Cristo, per decretare la fine di un’epoca. Una morte per decreto. Ma non di una linea di spirito, sangue e culto. Di un modo di essere e intendere la vita. L’insegnamento che ci consegna Renato Del Ponte con la sua opera è come esse siano giunte a noi proprio grazie alle gesta di uomini come Simmaco o, ancor prima, di un Furio Camillo o un Cesare Ottaviano Augusto, che seppero tenere ferma una superiore idea di civiltà e tradizione avita, senza cedere alle facili lusinghe dell’indifferenziato e del cosmopolita. Ed essa è ancora integra e perfetta per chi sappia intenderla e coglierla.

 

Stefano Bianchi

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